
David Grossman: il nome delle cose
Ci sono termini che si lasciano sospesi, per pudore, per timore, per il peso che portano.
Parole che si evitano, a volte per convenienza, per non esporsi, per non incrinare equilibri apparenti.
Ma arriva un momento in cui l’inerzia diventa complice, e l’onestà intellettuale è chiamata a pronunciarsi.
David Grossman, scrittore israeliano tra le voci morali più alte del suo Paese, ha scelto di chiamare le cose con una delle designazioni più estreme: genocidio.
Lo ha fatto con dolore, ma senza esitazione. Intervistato sul dramma che si consuma da mesi a Gaza, egli ha affermato: “Non posso più evitarla”.
Una scelta linguistica e civile che segna un punto di rottura. Va oltre una semolice dichiarazione: è un atto.
Grossman conosce il costo della guerra. Ha perso un figlio in uniforme. Ha scritto dell’infanzia spezzata, dei corpi fragili, della disperazione che disgrega.
Egli parla da cittadino che rifiuta la cecità della propria parte.
In gioco non c’è più soltanto il diritto alla difesa, né la misura delle forze in campo.
La riflessione si sposta dalla legittima difesa e dal confronto tra le armi a una trasformazione più strutturale.
La domanda che quest’ultimo pone è più radicale: dove finisce la legittimità e dove comincia l’annientamento?
Denunciare il genocidio non è negare le ferite passate di Israele è, al contrario, opporsi alla rimozione di quelle presenti, inflitte a un intero popolo: ai bambini, agli anziani, ai civili.
Richiede, infine, all’Europa e al nostro Governo, una decisione giusta, etica, non più rinviabile.
Equivale a restituire alla politica il senso della responsabilità, alla guerra il suo nome, e all’umanità la misura.
L’autore non lancia accuse. Interroga. E nel farlo ci coinvolge.
Perché l’espressione che ha scelto — e che molti evitano — non riguarda solo Gaza, né soltanto Israele.
Riguarda anche noi: la nostra capacità di vedere, di riconoscere, di non voltare lo sguardo.
Non è questione di prendere posizione all’interno di uno schema binario, bensì di ascoltare chi, in una storia così complessa e lacerata, conserva l’integrità e la trasparenza nel riferire ciò che vede.
E di nominarlo per quello che è.
Mentre Benjamin Netanyahu afferma che “a Gaza non c’è fame”, la voce consapevole squarcia questa menzogna con la potenza sobria di chi ha osservato, di chi sa.
Non servono immagini, né retorica: basta la verità detta da chi appartiene.
In quella frattura — tra chi nomina il dolore e chi lo nega — si gioca oggi il discrimine più profondo.
Perché la linea tra vero e falso non è solo un fatto di cronaca o di numeri.
È una soglia deontologica che separa chi conserva la propria umanità da chi, pur di non rispondere, la sacrifica.
Mara Cozzoli
