
La libertà di Brusca e la giustizia che non consola
La scarcerazione di Giovanni Brusca, autore confesso dell’attentato di Capaci e di oltre cento omicidi, ha scosso la coscienza civile del Paese. Non si tratta di una reazione emotiva, ma di un dissenso profondo che riguarda la percezione del senso di giustizia.
Brusca non è un detenuto qualunque. È l’uomo che ha premuto il telecomando che ha fatto saltare in aria Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e tre agenti della scorta.
È lo stesso che ha fatto sciogliere nell’acido un bambino dopo un sequestro lungo 779 giorni.
Giuseppe Di Matteo, ucciso nel gennaio 1996, aveva dodici anni. Venne rapito per fare pressione sul padre, un ex uomo d’onore che aveva deciso di collaborare con la magistratura. A ordinare quel delitto furono anche Matteo Messina Denaro, allora reggente della strategia stragista di Cosa Nostra, e i fratelli Graviano, boss di Brancaccio.
Non si trattò solo di una vendetta: fu un atto calcolato, parte di una campagna del terrore portata avanti tra il 1992 e il 1994, con cui la mafia tentava di piegare lo Stato attraverso sequestri, attentati e omicidi simbolici.
I crimini di Brusca sono stati accertati in numerose sentenze. Per la strage di Capaci, fu condannato all’ergastolo, pena poi ridotta grazie alla collaborazione con la giustizia. Per il sequestro e l’omicidio di Giuseppe Di Matteo è stato riconosciuto colpevole insieme ai fratelli Graviano e a Messina Denaro, mandanti dell’esecuzione. Le sentenze parlano di “ferocia disumana” e di un crimine deliberato all’interno di una strategia di ricatto contro lo Stato.
È proprio in base alla normativa prevista per i collaboratori di giustizia che, nel 2021, la Corte di Sorveglianza di Roma ha disposto la sua scarcerazione, ritenendo esaurita la pena.
La legge ha fatto il suo corso. Ed è giusto ricordarlo: fu proprio Giovanni Falcone a volere fortemente l’istituzione della figura del collaboratore di giustizia, strumento decisivo per penetrare i meccanismi interni di Cosa Nostra. Una figura già sperimentata, anni prima, nella lotta al terrorismo con i primi “pentiti” delle Brigate Rosse. La collaborazione ha permesso di infliggere colpi durissimi alla mafia, e sotto questo profilo Brusca ha fornito un contributo rilevante.
Ma il punto non è questo. Il nodo che inquieta non riguarda la legalità, ma la giustizia in senso più alto. Si può considerare “giusto”, nel senso etico e civile, che un uomo colpevole di crimini tanto efferati possa tornare in libertà dopo 25 anni di carcere, seppur collaborando?
È qui che nasce il conflitto.
La legge ha fatto il suo dovere. Ma la giustizia? Perché ciò che è legale non sempre è anche giusto. Ed è in questo scarto che si consuma il conflitto più profondo.
Falcone credeva nello Stato di diritto, ma non certo in uno Stato che dimentica. La sua visione del collaboratore di giustizia non coincideva con un automatismo di premi o sconti. Era un’arma da usare con rigore e discernimento, mai a scapito della memoria delle vittime.
Oggi, vedere libero Brusca significa per molti cittadini vedere infranto un patto morale: quello tra lo Stato e chi ha sacrificato tutto per combattere la mafia. Il dolore dei familiari, la rabbia composta di chi crede nella giustizia, la delusione dei cittadini onesti non possono essere considerate semplici reazioni emotive. Sono il sintomo di una ferita che non si rimargina.
La collaborazione è stata utile, ma può davvero bastare per estinguere una colpa così grande? Se la giustizia non riesce più a parlare la lingua della coscienza collettiva, rischia di trasformarsi in un codice svuotato di senso. E in un Paese che ha pianto giudici, poliziotti, giornalisti e cittadini perbene, questo non è accettabile.
Mara Cozzoli
