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“Je suis Bibì”. Riflessione sull’abuso di potere

| Mara Cozzoli |



In Je suis Bibì”, Miky Degni non descrive, taglia.
Con pochi tratti digitali affilati come lame, mette in scena la metamorfosi più inquietante del nostro tempo: il dominio che si traveste da memoria, la vittima che si legittima a carnefice.

Il volto di Benjamin Netanyahu che ci guarda non ha carne né emozione: è puro simulacro, una maschera grafica spinta fino al punto di rottura. Il baffo hitleriano, le corna nere, lo sguardo vuoto. Una sintesi visiva che non lascia vie di fuga. Ma è il contesto, più ancora del soggetto, a ferire: quel fondale che evoca la bandiera israeliana apre un cortocircuito etico potente, che ci impone di chiederci dove stia, oggi, la soglia tra il diritto alla difesa e l’abuso della forza. Tra il credito storico e l’arroganza.

Degni agisce con una lucidità fredda, ma non cinica. L’opera non è una provocazione gratuita, e non c’è compiacimento nella durezza del tratto. È una denuncia morale che si serve del linguaggio visivo più controllato per lasciare spazio alla tensione etica. I colori piatti, i contorni secchi, l’assenza di sfumature non sono solo scelta estetica: sono una presa di posizione.

L’artista non distrugge, ma richiama. Non accusa un popolo o un’eredità: interroga una deriva.
Il suo “Je suis Bibì” è un’eco muta rivolta a chi ancora confonde l’identità con l’impunità.
 E, soprattutto, è una sfida lanciata allo spettatore: hai il coraggio di vedere, davvero?

Mara Cozzoli

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