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Referendum senza quorum. Il giorno in cui abbiamo scelto di non contare

Solo il 30, 6% degli italiani si è recato alle urne. Il dato è significativo, e non ha bisogno di interpretazioni complesse: il referendum è fallito. Il quorum non è stato raggiunto, la consultazione si è chiusa senza effetti. Ancora una volta, a prevalere è stata l’assenza, non l’indirizzo del voto.
Colpisce che a mancare non sia stata l’opinione, ma la volontà di esprimerla. L’inazione, più della scelta, sembra essere diventata la cifra di una democrazia che si svuota lentamente, dove il distacco ha preso il posto dell’impegno.

È inevitabile il confronto con il 2 giugno del 1946, quando oltre il 90% degli italiani si espresse sul futuro istituzionale del Paese. Era un’Italia ferita, ma consapevole della posta in gioco. Oggi, in una fase storica più stabile e meno drammatica, la scelta è stata quella di non scegliere.
Non si tratta semplicemente di disinteresse. È qualcosa di più stratificato: un segnale di sfiducia, di disillusione, forse anche di resa. La sensazione, sempre più diffusa, che tutto sia già deciso altrove e che il singolo gesto non incida più. A questo si somma una debole educazione civica e la convinzione, sempre più radicata, che il referendum conti poco, quando invece è uno strumento concreto per incidere sulle decisioni che riguardano la vita del Paese.

Ma ogni vuoto lasciato non resta tale. Quando i cittadini si ritirano, il potere si consolida. L’astensionismo non è mai passivo: conferma l’ordine – o il disordine, a seconda di come si voglia leggere l’assetto politico-sociale – esistente. In questo caso ha favorito l’attuale governo, guidato da Giorgia Meloni, che porta a casa l’ennesima conferma del consenso senza affrontare alcun contraddittorio, protetto da un vuoto che diventa comodo silenzio.
A emergere, ancora una volta, è la questione della responsabilità collettiva. La democrazia non è un meccanismo automatico: si regge su scelte, presenza, consapevolezza. Votare non è solo un diritto, ma un modo per esserci. Chi rinuncia a farlo, rinuncia anche alla possibilità di dire: “questa decisione mi riguarda”.

È legittimo sentirsi lontani dalle istituzioni, e giusto essere critici quando qualcosa non funziona. Ma non è credibile lamentarsene dopo aver scelto il silenzio.
Il giorno in cui abbiamo deciso di non contare è anche il giorno in cui, tacitamente, abbiamo accettato che altri decidessero al nostro posto.

L’opposizione si chiede davvero perché così tante persone non votano?
Chi detiene la maggioranza sa che cammina sul disimpegno dell’elettore? Difficile andarne fieri.

Mara Cozzoli

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