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Vittimizzazione secondaria e non solo. Intervista Avv. Emanuela Amati e Annabella Brumana. Seconda parte.

La scorsa settimana con gli avvocati Emanuela Amati e Annabella Brumana ci eravamo lasciate analizzando il contenuto della Legge n. 69/2019 noto come “Codice Rosso“.

https://www.milanopiusociale.it/2022/01/12/vittimizzazione-secondaria-e-non-solo-intervista-avvocati-emanuela-amati-e-annabella-brumana-parte-prima/

Non ci fermiamo e continuiamo oggi con il nostro approfondimento.

Tornando al “Codice Rosso” ho l’impressione però che sia difficoltoso applicarlo in ogni suo contenuto.
Quali sono le maggiori difficoltà? Perché sorgono?


E. A. Purtroppo, sì. Come spesso accade, la previsione astratta della norma, non sempre in concreto riesce a trovare applicazione o a perseguire in toto le finalità prefissate.
Sebbene l’iter iniziale – come modificato – dei procedimenti relativi a reati di violenza sia di breve durata (trasmissione immediata della notizia di reato al PM ed escussione della persona offesa entro i tre giorni successivi), in realtà, finisce inevitabilmente per rallentarsi. Non è infatti stato previsto un aumento dell’organico delle Forze dell’Ordine, delle Procura e dei Tribunali, che devono continuare ad occuparsi anche di tutti gli altri reati, ancorché sia previsto “sulla carta” che le indagini sugli atti di violenza contemplati nel Codice Rosso debbano avere la priorità.
Bisogna anche considerare che tre giorni possono rivelarsi un tempo insufficiente per elaborare il vissuto ed essere in grado di esporre le violenze subite in modo chiaro e puntuale.
Un’altra criticità della Legge è rappresentata dalla clausola di invarianza finanziaria: in sostanza, la Legge ha previsto interventi – tra cui, misure a sostegno degli orfani delle vittime di violenza domestica e di genere e delle famiglie affidatarie e percorsi di formazione degli operatori di polizia – che non possono certamente essere “a costo zero”, ma per i quali non sono previsti stanziamenti specifici.

A.B. Anche l’adozione di eventuali misure cautelari, ad esempio, la custodia in carcere o in casa di cura, l’allontanamento dalla casa familiare, il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentato dalla persona offesa, non risponde alle esigenze di celerità della vittima del reato. Questo perché rimane sempre il P.M. a doverne chiedere l’applicazione ed il Giudice a disporle, previo esame delle risultanze delle indagini della Polizia Giudiziaria. Non è, infatti, possibile applicare tout court una misura cautelare. Queste misure presuppongono sempre la sussistenza di specifiche esigenze/presupposti – pericolo di fuga, reiterazione del reato, inquinamento probatorio – e dalla pericolosità sociale del responsabile, che devono essere indagate.
A volte, inoltre, le misure adottate, pur necessarie, si rivelano comunque di pregiudizio per la vittima dei reati. Pensiamo ad un indagato di violenza domestica sottoposto agli arresti domiciliari presso l’abitazione famigliare. Conseguentemente, la vittima e gli eventuali figli devono lasciarla e trovare rifugio, in assenza di mezzi, in una comunità. 
Inoltre, in caso di violazione delle misure cautelari, le autorità possono venirne a conoscenza solo in un momento successivo, quando magari sia troppo tardi, come potrebbe verificarsi in caso di divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla vittima
(il ricorso al braccialetto elettronico potrebbe pertanto essere una buona soluzione). 
La Pandemia in corso, oltre al resto, ha inciso anche sui fenomeni di violenza domestica. Siamo stati tutti “rinchiusi” per un lungo periodo ed anche ora abbiamo delle restrizioni. Molte persone inoltre hanno perso il lavoro: si tratta soprattutto di donne che si sono quindi trovate in una condizione di dipendenza economica.
Anche la possibilità di collocare le vittime dei reati in strutture/comunità è oggi ridotta, dato che le norme relative all’emergenza Covid, impongono di limitare il numero degli ospiti ed il distanziamento sociale.
Certamente il Codice Rosso è un buon punto di partenza, ma la soluzione del problema è ancora lontana.
Segnaliamo, però, che un ulteriore passo in questa direzione è rappresentato da quella che è nota come Riforma Cartabia, ossia la Legge 134/2021 di “delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”. Di questo, magari, ne parleremo un’altra volta. 


Sappiamo che la violenza assume due sfumature: fisica e psicologica, quest’ultima è subdola, non lascia segni sul corpo, ma uccide l’anima.
Siete donne e anche avvocati, avete voglia di raccontarmi le vostre esperienze sul campo, legate proprio a questo tema. Quello che vi chiedo è cosa avete visto, percepito, qual era lo stato d’animo della vittima.

E.A. In parte dello stato d’animo delle vittime di questi reati, ne abbiamo già parlato rispondendo alle altre domande. Si tratta di persone spaventate, completamente spaesate, che in qualche modo si erano trovate a vivere avulse dalla realtà, che non vedono una via d’uscita, che devono essere consigliate ed indirizzate non solo da un punto di vista legale, ma anche sotto una serie di altri profili, più personali e legate alle esigenze quotidiane.
Queste vittime richiedono un’assistenza a tutto tondo. Ovviamente, noi legali non possiamo sostituirci ad altre figure né strutture che devono entrare in gioco. Ci riferiamo, ad esempio, ai servizi sociali – che purtroppo non si rivelano sempre all’altezza del compito – con i quali in questi casi ci siamo trovate a relazionarci, ed in alcuni casi anche a  fare da tramite fra loro e le vittime.
Ci è accaduto infatti che le persone vittime di violenza non parlassero la nostra lingua e che perciò si rendesse necessario aiutarle anche solo per avanzare delle semplici richieste ad uffici pubblici. Spesso erano prive di mezzi di sussistenza ed avevano bisogno di aiuto anche per trovare una casa e provvedere ai fabbisogni quotidiani propri e dei figli.
Abbiamo anche contattato i Comuni per chiedere alloggi o sussidi, accompagnato queste persone alla Caritas per ricevere vestiti o generi alimentari, raccolto tra amici e conoscenti beni di cui queste persone avevano bisogno.

A.B. A volte, non neghiamo che questo ci sia un poco pesato: diventare il punto di riferimento di una persona che deve ricostruire la propria vita è una responsabilità non semplice da gestire, anche perché ci viene – o ci verrebbe richiesta – una reperibilità continuativa, anche nei fine settimana, se non ponessimo dei limiti, rendendoci disponibili “oltre all’orario di ufficio” solo per emergenze. Noi rimaniamo comunque legali e per svolgere il nostro lavoro, pur sviluppando empatia nei confronti di queste vittime, dobbiamo mantenere un certo distacco.      
Ė però inevitabile che le vittime di questi reati vedano dell’avvocato un punto di riferimento importante, un confidente privilegiato. Per poterle assistere, occorre farsi raccontare le terribili esperienze vissute e spesso questo richiede tempo e pazienza. Occorre pertanto che l’avvocato affini in particolar modo le sue capacità di ascolto ed interazione con altre figure professionali (psicologi, assistenti sociali etc.), sin dai primi passi. Spesso, prima di sporgere una denuncia-querela, occorre attendere che la vittima sia pronta a fidarsi, a raccontare ciò che le è accaduto ed affrontare ciò che l’attende.

Questi uomini non sono matti.
Nei casi di femminicidio, la stampa utilizza espressioni del tipo” Raptus di follia”, “Omicidio a sfondo passionale”.
Facendo un’analisi generale dell’accaduto, però, queste sono tragedie preannunciate.
Vorrei che raccontaste i campanellini che ci dicono: “Attenzione, la situazione può degenerare”.


E.A.
Di campanellini d’allarme ve ne possono essere molteplici, il problema è ascoltarli.
Un insulto, il sentirsi ripetere che non si vale nulla, finendo per crederci, uno schiaffo, un palpeggiamento possono certamente essere avvisaglie di un’indole violenta ed oppressiva.
Altri comportamenti vengono spesso considerati “normali”, ma in realtà non lo sono affatto: controllare il cellulare del partner, criticare le sue amicizie e lo stile di vita, seguirne gli spostamenti, controllarne gli orari. 

A.B. Non si può e non si deve sottovalutare e tollerare questi campanelli d’allarme.
Purtroppo, ci è capitato che le vittime di reati che si sono rivolte a noi, almeno all’inizio, l’abbiano fatto, trovandosi in seguito in una condizione di estrema assoggettamento e soggezione psicofisica, senza sapersi spiegare come ci siano arrivate.

Non solo, nei casi di stupro titoli di giornale: “Ubriaca fradicia stuprata dal gruppo”: fuorviante, direi che “Ubriaca fradicia” anche qui, sposta l’attenzione dall’atto compiuto.


E.A
. Un titolo del genere non solo sposta l’attenzione dall’atto compiuto, ma insinua subdolamente che la vittima “se la sia cercata”, che quanto accadutole sia anche colpa sua, dato che non avrebbe dovuto essere “ubriaca fradicia”.
Purtroppo, il sensazionalismo spesso prevale sulla cronaca. Titoli del genere o articoli non oggettivi ed imparziali suscitano curiosità, fanno “vendere”. Per questo è molto frequente imbattercisi.

Perché, spesso, organi competenti, quali ad esempio le forze dell’ordine, prendono con leggerezza tali segnali, nel  senso che manca un intervento forte e deciso?

E.A. Difficile rispondere in modo esaustivo.
Noi abbiamo notato una generale tendenza a sottovalutare segnalazioni di violenze ed abusi, sotto forma di querela o di semplici segnalazioni, in presenza cause di separazione o divorzio. Queste accuse vengono, infatti, lette attraverso il filtro dell’elevata ed esasperata conflittualità tra i coniugi che si estrinseca in accuse anche molto gravi e non di rado reciproche.
Uno dei principi cardine del nostro ordinamento giuridico è inoltre quello di non colpevolezza a cui deve essere orientata tutta l’attività di indagine e processuale. In sostanza, un soggetto non può essere considerato colpevole se non sia stato condannato con sentenza definitiva ossia che non possa più essere impugnata. Ne consegue, ad esempio, che le misure cautelari, possano essere applicate solo dopo aver indagato e verificato la sussistenza di elementi che ne giustifichino l’adozione. Si tratta infatti di misure che incidono sulla libertà di un soggetto che agli occhi della legge è ancora innocente e di cui si deve ancora dimostrare la colpevolezza.

A. B. Torniamo anche a ribadire che un altro grave ostacolo è la mancanza di adeguata preparazione di alcuni operatori che, trovandosi ad interagire con le vittime e con i colpevoli, ne sottovalutino il problema. Anche l’oggettiva mancanza di organico impedisce interventi tempestivi e determinantii.
Vi è poi il sovraccarico di lavoro di Procure e Tribunali, dovuto ai numerosi procedimenti aperti per i reati di cui ci stiamo occupando, ma anche per altri reati che continuano ad essere commessi nonostante la piaga dilagante dei femminicidi e della violenza domestica e di genere.

Sappiamo che la matrice della violenza sulle donne è culturale. Ripercorriamo la storia dell’evoluzione delle norme che regolano la loro tutela.
Solo nel 1981 vengono aboliti matrimonio riparatore e delitto d’onore.
Dal 1996 lo stupro viene considerato reato.
È possibile che un’evoluzione tardiva, porti ancora oggi, l’uomo a considerare la donna di sua proprietà, o comunque mantenga viva la così detta “Mentalità Patriarcale”?

E.A
. Prima del diritto, l’origine della mentalità patriarcale e maschilista, come evidenziava Lei, dev’essere ricondotta al contesto socioculturale in cui viviamo.
Tra altro, il contesto socioculturale incide sull’elaborazione delle leggi che, quindi, ne sono almeno in parte espressione.
Ovviamente, si origina poi un circolo vizioso, posto che il mancato riconoscimento a livello legislativo di certi principi, quale quello di uguaglianza, di intangibilità del corpo e così via, a sua volta alimenta l’insorgere ed il persistere di una mentalità retrograda.
Nel nostro Paese, con il passare degli anni, la sensibilità rispetto a determinati temi è aumentata. C’è, però, ancora molta strada da percorrere. Basti pensare alle differenze che ancora oggi esistono tra gli stipendi di una donna e di un uomo, a parità di qualifica ed anzianità di servizio. O ancora, pensiamo alla Pandemia ed alle rinunce che soprattutto le donne, tra i due genitori, hanno sostenuto per i figli e la famiglia.

A.B. O ancora, più semplicemente, in Italia è ancora mentalità diffusa che una donna debba lavorare, ma anche occuparsi dei figli, della famiglia e della casa. Ad un uomo non vengono chieste le stesse dedizione, presenza ed impegno, se lavora.
Vi sarebbe ancora molto altro da dire, ma non vorremmo “andare fuori tema”.

La prevenzione inizia dall’infanzia, accompagnando il bambino in un percorso di educazione affettiva e alla bambina, occorre trasmettere il concetto di autostima. A tal proposito, c’è un messaggio che vorreste lanciare?

E. A. Riteniamo che educare le donne e gli uomini di domani sia fondamentale, perché solo loro possono dar vita ad un vero cambiamento.
Trasmettere certi valori con l’insegnamento è certamente importante. Riteniamo, però, ancor più importante ed efficace l’esempio che diamo ai bambini ed alle bambine. Perché ascoltano, ma soprattutto imitano.
Dobbiamo, quindi, stare attenti, anche nelle piccole cose, a non lanciare messaggi contraddittori.

A. B. L’educazione affettiva serve sia a maschi che femmine, così come il sostegno per la costruzione di una sana autostima. Altrettanto fondamentale è trasmettere la cultura del rispetto dell’altro e del dialogo come strumento di conoscenza reciproca, comprensione ed accettazione delle diversità. Anche di questo argomento, si potrebbe parlare per giorni…

In ultimo vi chiedo, siete dei tecnici, a vostro avviso, vi sono nella giurisprudenza vigente, punti che andrebbero modificati?

A. B. La giurisprudenza si modifica, cambia indirizzo, a volte giunge a conclusioni non propriamente condivisibili, altre fornisce delle risposte a degli interrogativi che gli operatori del settori si pongono dovendo applicare le norme.
Peraltro, il nostro non è un ordinamento di common law ed i Tribunali non sono strettamente vincolati dai precedenti. Alcuni problemi interpretativi, secondo la nostra opinione, sorgono perché le leggi sono il risultato di un compromesso tra varie ideologie e correnti politiche, che vengono applicate in un contesto socio culturale che non sempre ci si ritrova. Non di rado, alcune decisioni sono sembrate molto lontane dalla percezione che, oggi, si ha dei diritti specie di quelli delle donne.
In più, alcune leggi risultano astratte e frammentarie, mirano a perseguire una certa finalità, senza considerare i passi necessari – in termini di organizzazione ed impiego di risorse – per raggiungerlo.







Mara Cozzoli

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