venerdì, Aprile 26, 2024
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Vittimizzazione secondaria e non solo. Intervista avvocati Emanuela Amati e Annabella Brumana. Parte Prima.

Nel momento in cui andiamo ad affrontare il tema della violenza di genere, spesso, andiamo a scontrarci con quella che viene denominata “Vittimizzazione secondaria” oggi, purtroppo, sottovalutata.
Subdola e fine produce effetti devastanti, i quali, a volte, spostano l’attenzione dal reato, generando, in tal modo, il passaggio da vittima a carnefice.
Vittime ritenute poco credibili, screditate e indotte a colpevolizzarsi.
Nello specifico, in cosa consiste?
Ad accompagnarmi in questa analisi Emanuela Amati e Annabella Brumana.


Entriamo subito nel merito della questione e cerchiamo di capire, insieme, l’argomento che stiamo affrontando.


E.A
. La vittimizzazione secondaria è una vera e propria aggressione, contrapposta a quella primaria, che la vittima di reato subisce. È una conseguenza indiretta, emotiva e relazionale del reato.
La vittima vi si espone quando si scontra con l’inadeguatezza delle istituzioni a proteggerla, sostenerla e ad assicurarle giustizia.
Accade che il carnefice ricerchi la propria vittima e, con minacce, lusinghe o violenze, tenti di costringerla a rientrare nella consueta dinamica ed anche a rimettere (cioè “ritirare”) la querela sporta. Soprattutto in questo momento, la vittima dev’essere tutelata e protetta, con ogni mezzo possibile. Ed invece è spesso lasciata sola, senza un lavoro, una casa, mezzi di sussistenza per mantenere se ed i figli, per potersi “rifare una vita”. Rischia persino che quelle stesse istituzioni che dovrebbero aiutarla la privino anche dei propri affetti, affidando i figli ad altre famiglie. Questi sono tutti esempi di vittimizzazione secondaria.

A.B. Ve ne sono poi altri, come accennava Lei, ad esempio il giudizio della famiglia, il discredito sociale, la colpevolizzazione: la vittima viene malvista dai propri cari per non aver “lavato i panni sporchi” a casa propria, ritenuta responsabile di quanto accaduto ed additata per le abitudini di vita ed i comportamenti e così via.
Anche l’attenzione della stampa può tradursi in vittimizzazione della persona offesa dal reato nel caso in cui, ad esempio, il sensazionalismo della notizia prevalga sulla diritto-dovere di cronaca, o qualora vengano pubblicate informazioni che attengano alla vittima ed alla sua sfera privata o che dovrebbero essere coperte dalla segretezza delle indagini.
Per quanto riguarda il processo, il nostro ordinamento giuridico prevede che la prova di un fatto si debba formare in dibattimento, nel giudizio ordinario. La vittima viene quindi esaminata dai difensori di tutte le parti, tra cui anche quello dell’imputato, il cui scopo spesso è quello di dimostrare che persona offesa non è credibile e che le sue dichiarazioni sono inattendibili. In alcuni casi, la difesa dell’imputato può trascendere, giungendo a “mettere sotto accusa” la persona offesa che in aula si trova ad essere screditata e giudicata.  
Può anche accadere che l’imputato scelga di definire il processo con riti alternativi che non consentano alla persona offesa di far valere i propri diritti nel processo penale, o ancora, in caso di condanna, di ottenere un risarcimento del danno subito che rimane solo sulla carta, perché l’imputato risulta nullatenente. Anche questi sono esempi di vittimizzazione secondaria.

Quali conseguenze possono derivare? Quanto ed in che modo giunge ad aggravare lo stato di fragilità della vittima?

E.A. La vittima di violenza domestica e di genere si trova già in uno stato di estrema prostrazione. La frustrazione delle aspettative di sostegno e giustizia da parte delle istituzioni – che, con la loro inefficienza vanificano lo sforzo di sottrarsi a dinamiche relazionali distorte – può quindi avere un effetto devastante sulla psiche della vittima, affossandola ulteriormente.
La prima possibile conseguenza è che, persa la fiducia nelle istituzioni, la vittima rinunci a denunciare il proprio aggressore o comunque rimetta la querela sporta. In tal modo, si rassegna a trascorrere una vita di violenze e soprusi, finisce per annientarsi come persona ed isolarsi da tutti. Ciò incide necessariamente sulla sua autostima e sulla consapevolezza del proprio valore, che inizia a percepire come nullo.

A.B. Un’ulteriore conseguenza è che, in caso di violenza all’interno di una coppia, i figli apprendano modelli di comportamento e dinamiche distorti, che da adulti potrebbero riproporre e rivivere in future relazioni.
L’aggressore, invece, da una mancata denuncia o dalla sua remissione, esce rafforzato nel suo intento criminoso, in qualche modo incentivato ad “osare” sempre di più.
A livello sociale, la mancata risposta delle istituzioni, sia punitiva che assistenziale, provoca una sfiducia generalizzata che potrebbe spingere altre vittime a non denunciare, pensando che non serva a nulla.


Recentemente la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con sentenza n. 35110 del 17.11.2021 è stata chiamata a decidere circa lo stato d’ adottabilità di un minore la cui madre subiva da anni violenza psicologica. Questa donna, a causa di reiterate violenza, si trovava in stato di assoggettamento tanto fisico, quanto psicologico.


E.A.
Non conosciamo la vicenda nello specifico, non essendocene occupate, ma abbiamo letto con attenzione la sentenza, pubblicata di recente. Il caso riguardava una coppia: il marito si era reso responsabile di numerosi atti di violenza nei confronti della donna e dei figli di lei, nati dal primo matrimonio, tranne la più piccola, figlia di entrambi. La donna era stata ridotta in stato di completa sudditanza psicofisica dall’uomo, tanto da aver anche rimesso una querela sporta nei suoi confronti.
A fronte di ricorso della Procura della Repubblica, il Tribunale di Roma sospendeva la responsabilità di entrambi i genitori sui minori, nominava loro tutore provvisorio il Sindaco, stabiliva la cessazione dei rapporti tra il padre e l’unica sua figlia biologica. Il Tribunale incaricava i Servizi Sociali di disporre un accertamento urgente sulla situazione dei minori, autorizzandoli ad effettuare l’allontanamento urgente degli stessi in caso di grave pregiudizio, ed infine disponeva accertamenti sulla salute psico-fisica dei figli e sulla personalità dei genitori.
Conseguentemente, dinanzi al Tribunale per i Minorenni di Roma, si apriva una procedura per la verifica dello stato di abbandono dell’unica figlia della coppia, nel frattempo collocata presso una casa famiglia.
All’esito di tutti gli accertamenti del caso, compresa una consulenza tecnica d’ufficio, il Tribunale per i Minorenni dichiarava lo stato di adottabilità della piccola, vietando ogni contatto con la famiglia d’origine, e la collocava temporaneamente presso una famiglia affidataria.

A.B.I genitori impugnavano la sentenza, ma il loro appello veniva rigettato, con conferma della sentenza di primo grado.
La sentenza è stata, infine, impugnata dinanzi alla Corte di Cassazione. Le Sezioni Unite, a cui la questione è stata rimessa, hanno escluso che la madre potesse essere giudicata inidonea a svolgere il ruolo genitoriale unicamente in base allo stato di soggezione nei confronti del partner violento, tanto da aver anche ritirato, per paura, la denuncia sporta.
A nostro avviso, la Corte ha correttamente ritenuto che all’adozione piena debba farsi ricorso solo come extrema ratio, posto che comporta l’interruzione di ogni rapporto del minore con la famiglia d’origine.
Solo qualora entrambi i genitori rechino grave pregiudizio ai figli ed in presenza di fatti gravi, oggetto di prova nel corso di un processo, il minore può essere dichiarato in stato di abbandono psico fisico, quindi adottabile. Non dev’essere assolutamente più possibile, in questi casi,  riavvicinare il minore alla famiglia d’origine. 
Questa importante sentenza esprime a chiare lettere la necessità di preservare un legame affettivo fondamentale come quello tra madre e figlio e di evitare che la donna, già vittima di violenza, subisca un’ulteriore, terribile privazione: la perdita dei propri figli. Le Sezioni Unite, con tale pronuncia, si sono allineate perfettamente con l’art. 7 (Rispetto della vita privata e della vita familiare) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea detta anche Carta di Nizza, l’art. 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo alias CEDU e art. 18 (Obblighi generali) della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, conosciuta anche come Convenzione di Istanbul ed anche ad una serie di pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, in materia.
Va comunque considerato che un minore non ha  gli strumenti per difendersi ed è, a propria volta,  vittima indiretta del reato, quando assiste ad atti di violenza e vive in un ambiente di soprusi. Pertanto occorre verificare caso per caso ogni situazione, considerando prioritaria la tutela del bambino.

Ciò che reputo sconcertante è il punto di partenza.
Come può un Tribunale dei minori avere dichiarato il figlio in stato d’abbandono? Innanzi a una situazione del genere, avrebbe potuto agire diversamente?

E.A. Per rispondere con cognizione di causa a questa domanda, dovremmo esaminare gli atti del processo, capire lo stato di fatto, gli accertamenti disposti il Tribunale per i Minorenni ed i loro esiti.Non conoscere il contenuto del fascicolo di causa rende difficile individuare puntualmente quello che il Tribunale per i Minorenni ha ed avrebbe potuto fare, posto che gli interventi devono essere disposti ad hoc, in base alle concrete problematiche che emergono dagli accertamenti.
Possiamo ipotizzare che il Tribunale abbia ritenuto che allontanare la figlia biologica del padre maltrattante fosse nell’interesse del minore, che dev’essere sempre ritenuto primario rispetto a quello degli adulti.
Non sappiamo se moglie e marito condividessero ancora lo stesso tetto o se uno dei due genitori avesse lasciato la casa coniugale. Qualora fossero ancora conviventi, il Tribunale avrebbe potuto affidare temporaneamente ad una famiglia la minore, in attesa che madre e padre si separassero e la donna reperisse un’adeguata soluzione abitativa per se e per la prole.

A.B Possiamo, in realtà, immaginare che, all’epoca in cui il processo si svolse in primo grado, i genitori della piccola non convivessero più, altrimenti presumibilmente avrebbero depositato un unico ricorso, appellando i medesimi capi e punti della sentenza. La presentazione di due ricorsi potrebbe far pensare che i due si fossero separati almeno di fatto, ma non è escluso il contrario. Può essere semplicemente che questo sia la conseguenza delle loro differenti posizioni processuali.
In caso di genitori non più conviventi, pur ritenendo di affidare temporaneamente la minore al Comune di residenza, anziché separare madre e figlia, il Tribunale per i Minorenni avrebbe potuto lasciare la bimba collocata presso la madre, incaricare i Servizi Sociali di monitorare il nucleo e porre in essere una serie di misure assistenziali. Giusto per fare qualche esempio… in favore della donna, presumibilmente indigente, avrebbero ben potuto essere adottate delle misure di sostegno economico, a livello comunale. Qualcosa di simile, per intenderci, all’“assegno di libertà”, introdotto nel 2020, erogato dall’INPS e pari a 400,00 Euro mensili. Qualora la donna non conoscesse la nostra lingua – la coppia era straniera, non sappiamo quanto integrata – sarebbe stato possibile inserirla in corsi di italiano per stranieri.

A mio avviso, una decisione del genere da parte di un Tribunale dei minori, potrebbe arrecare danni irreparabili alla psiche di una madre, sminuendola nel suo ruolo di genitrice, facendola anche sentire inadatta rispetto alla funzione svolta. Un tribunale, non pensa a questi risvolti?
Qual è il vostro parere?

E.A. Certamente, per una donna maltrattata subire anche l’allontanamento dei figli ed il loro inserimento in comunità o in famiglie affidatarie avrebbe un effetto devastante.
Parimenti devastante, però, potrebbe essere l’effetto che, sui figli, avrebbe il non poter uscire da dinamiche familiari aberranti, qualora la madre non volesse o non fosse in grado di affrancarsi da un partner violento e soggiogante. Come detto, non conosciamo la situazione nello specifico, e generalizzare, specie in questi casi, non è possibile.
Come già detto, per i Tribunali ciò che conta è l’interesse del minore che deve sempre prevalere su quello dei genitori. Per capire, nel caso concreto, quale sia l’interesse del minore, il codice civile, tra altri, ha previsto un particolare “strumento”, purtroppo utilizzato meno di quanto si potrebbe, l’audizione del minore. Il codice prevede che il Tribunale debba ascoltare il minore – sempre se di età superiore a 12 anni, se capace di discernimento se di età inferiore – nel corso di procedimenti che lo riguardino. Questo per garantirgli il diritto di essere informato ed esprimere la propria opinione.
Tornando alla domanda… i Tribunali in genere non considerano le conseguenze che le proprie decisioni avranno sugli adulti.

A.B. Anche secondo noi, il minore deve essere tutelato, prima di tutto. Condividiamo, però, il principio espresso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione: tale interesse deve essere contemperato con quello del genitore “incolpevole” che dev’essere sostenuto, guidato, recuperato, non allontanato. Se così non fosse, la vittima di un reato di violenza, verrebbe sottoposta ad una doppia violenza. Inoltre, come già detto, riteniamo che allontanare il minore dal genitore biologico non pregiudizievole ancorché in difficoltà, sia contrario anche all’interesse del minore.


Seppur la prima battaglia sia di natura culturale, secondo voi, dal punto di vista giuridico è possibile intervenire per evitare o comunque punire la vittimizzazione secondaria?

E.A. La vittimizzazione secondaria si manifesta sotto molteplici e variegate sembianze, come abbiamo detto. Non è possibile individuare un’unica condotta tipica. Molteplici sono, infatti, le conseguenze di un reato che possono essere qualificate come vittimizzazione secondaria.
Ad oggi, la vittimizzazione secondaria in sé non è un reato, lo sono però alcune condotte commissive ed omissive che possono portare a vittimizzazione secondaria della vittima, quale ad esempio, la diffamazione o l’omissione di atti d’ufficio. 
Uno dei capisaldi del diritto penale, espresso dall’articolo 1 del codice, è: “Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite”.
Perché una azione o una omissione costituisca un reato occorre che sia prevista come tale da una norma incriminatrice in vigore nel momento storico in cui l’azione o l’omissione venga posta in essere. In caso contrario, per il diritto penale quella condotta o quella omissione saranno penalmente irrilevanti.

A.B Potranno però avere rilevanza in altri ambiti, costituendo illeciti disciplinari o civili, con applicazione delle relative sanzioni.
Per quanto ci riguarda, siamo assolutamente convinte che il modo più efficace di contrastare la vittimizzazione secondaria sia sensibilizzare le istituzioni e l’opinione pubblica riguardo a questo problema, educare fin da piccole le nuove generazioni, fornire alle Forze dell’Ordine, al personale sanitario, ai Servizi Sociali etc. un’adeguata preparazione a gestire certe situazioni ed a relazionarsi con le vittime dei reati di genere e di violenza domestica.
Un cambio di mentalità impedirebbe infatti a priori il verificarsi di episodi di vittimizzazione secondaria della vittima, un risultato decisamente soddisfacente, a fronte di una risposta punitiva dell’ordinamento che, per forza di cose, interviene successivamente al verificarsi dei fatti.

Rimanendo sempre nel tema, passiamo a un altro argomento: parliamo di Codice Rosso, ovvero Legge n. 69/2019, la quale ha introdotto nuovi reati e aggravanti. Proviamo a esporne il contenuto.

E.A. Il Codice Rosso è intervenuto sul codice penale e su quello di procedura penale, con la finalità di offrire una maggior tutela alle vittime di violenza domestica e di genere, anche velocizzando l’avvio dell’iter procedimentale, ed inasprire le pene per i colpevoli.
Innanzitutto, ha previsto l’immediata comunicazione al Pubblico Ministero, da parte della Polizia Giudiziaria, delle relative notizie di reato e, nei tre giorni successivi, la convocazione delle persone offese da parte del Pubblico Ministero, per assumere direttamente da loro le sommarie informazioni sui fatti.
Ha anche stabilito che le persone offese debbano essere informate in tempo reale dell’adozione di provvedimenti di scarcerazione, cessazione di misure di sicurezza detentiva, evasione, applicazione di misure cautelari, revoca o sostituzione di misure coercitive o detentive nei confronti dell’indagato dei reati di cui la Legge si occupa. La finalità è evidentemente quella di permettere alle vittime di proteggersi da eventuali ritorsioni di chi abbiano denunciato.
Il Codice Rosso si è occupato dei reati di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, atti sessuali e corruzione di minorenne, violenza di gruppo, atti persecutori, diffusione di immagini di contenuto sessualmente esplicito e – se aggravate ad esempio dal rapporto di parentela, di coniugio, di convivenza o relazione sentimentale o dal concorso con i reati di atti persecutori – anche delle lesioni personali.

A.B. La Legge n. 69/2019 ha anche introdotto nel codice penale i reati di deformazione dell’aspetto di una persona mediante lesioni permanenti al viso, diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, costrizione o induzione al matrimonio, violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.
Ha anche inasprito la pena per i reati di maltrattamenti contro familiari e conviventi, atti persecutori e violenza sessuale. Quanto al reato di maltrattamenti in famiglia, il Codice Rosso ha consentito l’applicazione ai responsabili di misure di prevenzione volte appunto a scongiurare il verificarsi di determinati reati, da parte di soggetti ritenuti socialmente pericolosi. Ha anche introdotto la possibilità di garantire il rispetto della misura cautelare del divieto di avvicinamento dei luoghi frequentati dalla persona offesa, attraverso l’adozione di strumenti quale il braccialetto elettronico. 
Ha modificato/introdotto circostanze aggravanti speciali per i reati di violenza sessuale, atti persecutori, maltrattamenti in famiglia qualora il fatto avvenga in presenza o in danno di un minore, di una donna in gravidanza, di un disabile o se sia commesso con armi.
Il reato di atti sessuali con minorenne è stato aggravato in caso di fatti commessi nei confronti di minore a quattordici anni in cambio di denaro o altra utilità e divenuto procedibile d’ufficio (ciò significa che lo Stato può procedere nei confronti del colpevole anche in assenza di una denuncia-querela della persona offesa).
La violenza sessuale è rimasta, invece, procedibile a querela di parte – è la persona offesa a dover dar vita al procedimento penale –, ma il termine per proporla è stato aumentato a dodici mesi.
Anche per l’omicidio è stata prevista un’aggravante in caso di relazioni personali tra autore del reato e vittima.
Altro aspetto importante: la possibilità per i colpevoli di fruire della sospensione condizionale della pena  solo previa partecipazione a specifici percorsi di recupero. 
Per non dilungarci oltre – anche se l’argomento lo richiederebbe – concludiamo segnalando che il Codice Rosso ha anche introdotto l’obbligo di formazione specifica degli operatori di polizia giudiziaria che entrino in contatto con i protagonisti delle vicende, raccogliendo la querela, assumendo sommarie informazioni, esercitando funzioni di pubblica sicurezza, di polizia giudiziaria, di trattamento penitenziario.
Questo per evitare, da un lato, che la vittima sia disincentivata a sporgere querela, il proliferare di stereotipi e pregiudizi etc., dall’altro per favorire un vero percorso di riabilitazione dei responsabili dei reati di di violenza di genere.
Ha infine previsto misure di sostegno in favore degli orfani di crimini domestici e delle famiglie affidatarie ed imposto all’autorità penale di trasmettere a quella civile, se vi sia pendenza di giudizi di separazione/divorzio o relativi all’affidamento o alla potestà dei minori, i provvedimenti adottati nei confronti di una delle parti.

Si conclude così la prima parte della mia intervista agli Avv. Emanuela Amati e Annabella Brumana.

 

 







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