Gaza: “Non ero preparato a ciò che ho visto”. Il limite dell’umano davanti all’orrore
Ci sono frasi che attraversano lo spazio per cristallizzare il tempo, come crepe nella coscienza collettiva.
Una di queste è quella pronunciata da Andrew Saberton, funzionario delle Nazioni Unite al termine del sopralluogo a Gaza: «Non ero preparato a ciò che ho visto. Lì ti trovi in un film distopico. Ma non è fiction, è realtà».
Una dichiarazione semplice, ma che pesa come un macigno, perché racchiude in sé la concretezza dell’orrore. Prepararsi è il verbo dei protocolli e dell’efficienza.
Il punto è: che cosa accade quando la realtà travalica ogni logica? Quando l’occhio umano si trova di fronte non solo alla distruzione, ma all’assenza stessa di futuro?
Il funzionario Onu e direttore esecutivo dell’UNFPA, uno che ha visto guerre, carestie, sfollamenti, ha manifestato il proprio smarrimento.
Le immagini che da due anni giungono a noi fanno rumore.
Un frastuono che persiste anche quando lo schermo si spegne, che ci costringe a vedere.
È qui che il testimone istituzionale diventa attore umano: non più colui che “riferisce”, ma colui che vede e che, nel vedere, si incrina.
«Non ero preparato» non è un’espressione di debolezza, bensì una rivelazione di verità.
È l’ammissione che davanti a certe realtà non esiste formazione che basti, non esiste corazza che regga.
Perché l’essere umano, se resta tale, non può abituarsi all’inferno in Terra.
Noi, da lontano, guardiamo. Scorriamo scene, leggiamo titoli, commentiamo indignati, poi passiamo oltre.
Ma vedere, davvero, è un’altra cosa.
Quel verbo diventa sinonimo di lasciarsi attraversare, di accettare di non potersi più schermare.
Ogni bambino senza casa, senza arti, morto di fame, ogni madre senza nome, ogni funzionario che torna spezzato da ciò che ha visto ci riguarda.
Ci parla di noi, della nostra epoca, del nostro modo di stare al mondo.
La Striscia di Gaza è diventata uno specchio, e in quello specchio si riflette il volto nudo dell’umanità contemporanea: potente e impotente allo stesso tempo. Un’umanità che costruisce sistemi di difesa perfetti ma non sa più difendere la propria empatia. Che parla di pace mentre la trasforma in un’astrazione lontana.
Che si prepara a tutto, tranne che al dolore degli altri.
E allora, forse, quelle affermazioni sono più che una cronaca: diventano una domanda filosofica, una richiesta di senso.
Quale tipo di essere umano vogliamo essere, se non siamo più capaci di stupirci davanti alla sofferenza?
Non abbiamo risposte pronte.
Possiamo ricominciare da quella vulnerabilità che Saberton ha avuto il coraggio di ammettere.
Possiamo trasformare la fragilità in forza, la commozione in gesto, lo sguardo in presa di coscienza.
Gli occhi, le parole e i riflettori devono rimanere puntati su Gaza.
Mara Cozzoli