Ai limiti della forma: psicologia e visione in “Le bout du monde II” di Leonor Fini
In “Le bout du monde II”, datato 1953, Leonor Fini elabora una visione estetica che si colloca al confine tra coscienza e inconscio, presenza e dissoluzione.
L’opera, un olio su tela di dimensioni contenute (41,1 x 33 cm), si configura come uno spazio liminale in cui la costruzione figurativa diventa specchio mobile delle tensioni psichiche che attraversano l’individuo.
Pittrice spesso associata al surrealismo, ella si distacca da ogni adesione ortodossa al movimento.
Il suo approccio non è programmaticamente onirico, ma visceralmente introspettivo.
In questo dipinto, la materia pittorica diventa strumento di interrogazione identitaria e la donna, quale elemento centrale non si rivela come soggetto definito, ma in qualità di manifestazione perturbante e metaforica, che interpella direttamente lo spettatore sul piano emotivo e psichico.
Il paesaggio, se così può chiamarsi, non è altro che un’estensione dello stato interiore che l’opera incarna.
L’ apparizione femminile emerge da un fondo sfumato e liquido, dove i confini tra corpo e ambiente risultano porosi e in continua negoziazione, grazie a un uso sapiente del chiaro-scuro e delle velature che dissolvono le linee nette, creando un effetto di fusione dinamica tra la figura e lo spazio circostante.
Ed è proprio in questa instabilità percettiva che risiede la forza psicologica del dipinto.
“Le bout du monde II” non costituisce una scena, bensì il processo di emersione del rimosso sotto forma di immagine.
Volto, corpo e contesto non sono dati narrativi, ma espressioni visive di un movimento interno, di una soggettività in divenire.
Non si tratta, dunque, di “interpretare” il lavoro dell’artista secondo categorie iconografiche tradizionali; piuttosto, si è chiamati ad abitarla come esperienza sensibile, come spazio intimo aperto.
La figura rimanda alla dimensione archetipica, alludendo a orme simboliche che agiscono su livelli profondi: il femminile primordiale, la soglia, il doppio, l’inconscio.
In questo senso, la composizione diventa un dispositivo di evocazione.
Osservarla equivale a esporsi a una voce interiore, remota, che non articola un discorso ma una domanda: chi sei, oltre ciò che ti definisce?
Ed è in quella voce, muta ma insistente, che occorre trovare il coraggio di attraversare se stessi, fino al punto in cui ogni elemento cade e resta solo l’essenza psichica dell’essere.
Nel contesto della produzione artistica del secondo Novecento, “Le bout du monde II” costituisce un caso emblematico di pittura che si muove oltre l’estetica per toccare la sfera del vissuto profondo, della metamorfosi, dell’identità come campo mobile e molteplice.
In tale prospettiva, Leonor Fini non si limita a creare: dà forma visiva a ciò che giace sotto la soglia della coscienza.
Le sue creazioni non illustrano; destabilizzano, interpellano, trasformano.

Mara Cozzoli