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Premeditato, ma non per la legge: il paradosso del caso Tramontano.

La Corte d’Assise d’Appello di Milano ha confermato l’ergastolo per Alessandro Impagnatiello, riconosciuto colpevole dell’omicidio di Giulia Tramontano. Tuttavia, ha escluso l’aggravante della premeditazione.
Una decisione che, pur lasciando invariata la condanna, introduce una frattura profonda nella rappresentazione giuridica del delitto. È come se, nel dare forma alla sentenza, qualcosa di essenziale fosse stato lasciato fuori campo: la continuità della volontà che si costruisce, si attrezza, si affina.

Secondo i giudici, l’intento omicida sarebbe maturato solo poche ore prima del gesto, nel pomeriggio del 27 maggio 2023. Non vi sarebbero gli elementi per configurare una volontà criminale formata in anticipo e mantenuta lucidamente nella sua traiettoria. Una tesi che, però, appare in contraddizione con il materiale investigativo, con le analisi peritali, con i gesti stessi dell’imputato, disseminati nei mesi precedenti come indizi non di un’ossessione, ma di un disegno.
Giulia era incinta. Al settimo mese. Un particolare che non è un dettaglio, ma cornice imprescindibile. Attorno a quella vita in attesa — fragile, esposta, imminente — si è articolata la distruzione. Impagnatiello non si è limitato a immaginare l’eliminazione del figlio che non desiderava: ha cercato come provocare un aborto, ha acquistato e somministrato più volte del bromadiolone, un potente veleno per topi. La sostanza è stata ritrovata nel sangue di Giulia e in quello del feto. Non parliamo, quindi, di una crisi improvvisa, ma di un progetto che si è strutturato nel corso dei giorni, che ha richiesto pazienza, determinazione, reiterazione.

Premeditare, nel linguaggio della legge, significa concepire un proposito omicida in modo autonomo e consapevole, non nell’immediatezza del gesto. Non servono settimane: possono bastare anche poche ore, se vi è prova di una riflessione autonoma. Eppure, in questo caso, tutto ciò che avrebbe potuto sostenere questa aggravante — le ricerche online, i tentativi di avvelenamento, l’occultamento del corpo, la simulazione della fuga di Giulia, le menzogne protratte — è stato ricondotto a una sorta di smarrimento. Una spirale disperata, priva di coerenza e intenzionalità.
La Corte ha invece mantenuto due aggravanti: la crudeltà e la convivenza. Riconoscimenti parziali, che restituiscono in parte la portata della violenza agita, ma non compensano la rinuncia a riconoscere il carattere pianificato dell’omicidio. E qui si apre un vuoto più che giuridico, ma narrativo, simbolico, quasi epistemologico. Perché escludere la premeditazione equivale a dire che Giulia è stata uccisa d’impulso, come se mancasse una trama riconoscibile, un disegno leggibile nello sviluppo stesso degli eventi.

Ma chi si ferma ad osservare con attenzione questo caso vede altro. Vede un uomo che, in una progressione calcolata, ha messo in atto strategie di eliminazione. Vede una donna che, ignara ma sospettosa, ha continuato a vivere accanto a chi avrebbe dovuto proteggerla. Vede un gesto che non è solo efferato nel momento della sua esecuzione — trentasette coltellate — ma che è stato preceduto e seguito da una messinscena glaciale, capace di occultare un corpo, simulare comunicazioni, depistare le indagini.

Un contesto, dunque, nel quale la questione non è soltanto normativa.
È culturale. È linguistica. Escludere la premeditazione indebolisce la lettura di ciò che è accaduto. Il codice non cambia, ma cambia lo sguardo collettivo: su cosa intendiamo per responsabilità, per intenzione, per colpa.
Si è detto che la giustizia non è rivalsa, ed è giusto ripeterlo. Ma è altrettanto vero che la funzione giuridica è anche nomina delle cose, precisione del linguaggio, proporzione tra parola e verità. Se chi ha agito con pazienza, freddezza e calcolo — persino nei tentativi non riusciti — viene ricondotto alla categoria dell’impulso, allora la linea tra l’istinto e il progetto si assottiglia pericolosamente. E con essa si dissolve anche il riconoscimento pieno del trauma inferto.

L’uccisione di Giulia non è stata un’esplosione. È stata una sequenza organizzata, in cui la distruzione ha assunto la forma della ripetizione, della costruzione, della insistenza. Una madre e un figlio sono stati uccisi. E se il diritto italiano fatica ancora a riconoscere pienamente la soggettività del nascituro, resta almeno l’obbligo morale di non cancellarlo per via giudiziaria.
La Procura generale ha annunciato ricorso in Cassazione. È un passaggio tecnico, ma anche un gesto simbolico. Riattiva il confronto, rimette in discussione l’interpretazione di ciò che è accaduto. Perché in gioco non c’è solo la durata di una pena, ma la qualità della giurisprudenza. E la sua capacità di restituire significato a ciò che la brutalità ha tentato di disintegrare.

Chiara Tramontano, sorella di Giulia, ha commentato così la decisione:
“Esclusa la premeditazione. Non riesco nemmeno a commentare. Ho la nausea. Sento solo vomito. E oggi più che mai sento di non vivere in un Paese giusto.”
Parole che non chiedono vendetta, bensì verità chiamata per nome.
E forse è proprio questo, oggi, il compito più alto della coscienza giuridica: non essere solo corretta, ma anche lucida.
E capace di guardare fino in fondo l’orrore, senza abbassare gli occhi.

Ma qui si apre anche un altro tema, più strutturale: il nostro codice penale è figlio d’un’altra epoca. Risale al 1930 — il “Codice Rocco” — ed è stato pensato in un contesto sociale radicalmente diverso da quello attuale.
Alcune sue categorie riflettono una visione dell’agire umano che nella contemporaneità appare parziale, forse obsoleta.
In questo quadro, il potere interpretativo affidato al giudice è al contempo garanzia e rischio.
È ciò che consente di adattare la norma al caso concreto, ma può anche orientare la lettura dei fatti in modo soggettivo, a volte arbitrario — un’interpretazione “estensiva” che supera la semplice applicazione del testo .
Non si tratta solo di diritto, ma di visione del mondo.
E in casi come questo — dove la realtà è già tragicamente chiara — tale discrezionalità rischia di trasformarsi in opacità.

Mara Cozzoli

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