
Quando l’identità si spezza: Medea e la rabbia senza voce.
Dietro un agito estremo, una frattura emotiva che parla anche al nostro tempo. Non è solo mito: è interiorità spezzata, è bisogno rimasto muto, è solitudine che chiama l’altruità.
Medea non è soltanto un personaggio della tragedia antica. È una figura psichica, un luogo della mente in cui si concentrano tensioni profuse, spesso inconfessabili. La sua presenza resiste nel tempo proprio perché attraversa territori universali: il dolore dell’esclusione, la perdita di senso, la trasformazione del legame in ferita.
In lei non c’è l’impulsività cieca, ma un’intelligenza che elabora la lacerazione fino al limite.
La rabbia non è uno scatto emotivo, ma un processo. Un lento lavoro sotterraneo che parte dalla disintegrazione dell’identità: Medea non è più moglie, non è più madre, non è più centrale nella vita dell’altro. E quando viene espulsa da tutto ciò che la definiva, si riorganizza intorno all’unica cosa che le resta: il gesto.
Non è follia, ma logica spinta ai margini. L’amore, in Medea, non è solo affetto: è struttura portante. Quando viene meno, non resta appoggio. È questa assenza di appiglio che genera la catastrofe.
Non si sopporta la scomparsa se non c’è una narrazione alternativa in cui ricollocarsi. E quando nessuno offre ascolto o senso, si crea uno spazio psicologico in cui l’atto distruttivo diventa l’unico linguaggio possibile.
Nel punto più irreversibile della sua azione – l’uccisione dei figli – non si afferma odio, ma la negazione assoluta di un vincolo che rimanda a ciò da cui è stata esclusa. Il figlio, da oggetto d’amore, diventa simbolo della continuità negata. È una manifestazione che non si può comprendere con gli strumenti dell’etica, ma che si può provare a leggere come punto finale di un’anima sradicata.
Rileggere Medea alla luce della contemporaneità significa interrogare i meccanismi sentimentali che ancora fondano il senso di esistenza di molte persone.
L’illusione di completezza attraverso un legame esterno, l’abbandono vissuto come perdita del sé, il bisogno disperato di riconoscimento. Tutti temi che attraversano la dimensione sensibile e che, se non trovano contenimento, possono sfociare in forme di disgregazione profonda.
Il mondo attuale parla molto di relazioni, ma le guarda con superficialità.
Si fatica a riconoscere la complessità emotiva di chi vive il distacco non come passaggio, ma come crollo.
E quando queste esperienze non trovano ascolto, possono sfociare in espressioni di rottura non sempre visibili.
Medea, in questo senso, è una figura-frontiera. Non va imitata, né giudicata. Va decifrata. Perché abita i confini di ciò che possiamo tollerare, ma anche di ciò che possiamo comprendere.
Mostra le crepe nei nostri modelli interpersonali, nei discorsi consolatori del perdono, nel linguaggio educativo che esclude il conflitto e la sofferenza non elaborata.
È la voce di chi ha perso tutto, anche la possibilità di spiegarsi. Ci sfida, ci disturba, ma ci impone di riflettere. Sulle relazioni che ci definiscono, sulle esclusioni che silenziano, sulla possibilità – o meno – di ricostruirsi dopo un crollo.
Non è una figura da confinare nella distanza del mito. È una presenza archetipica che attraversa i nodi irrisolti della condizione umana.
Ella parla da una zona recondita liminale, ma non priva di coerenza.
E proprio per questo merita di essere compresa, non per assolvere, ma per restituire spessore a ciò che nelle dinamiche intime e sociali sovente resta in ombra
Mara Cozzoli
