venerdì, Aprile 19, 2024
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Cos’è la mafia, come si è evoluta? Intervista a Giovanni Taormina, giornalista.

Un salto nel passato, senza escludere il presente. 
Storie di sangue, dolore e terrore, con la susseguente rivoluzione culturale che, piano piano ne derivò, raccontate dalla voce di chi questi periodi li visse, sulla propria pelle.
Cos’è la mafia? Come si è evoluta? Ne parlo, oggi, con Giovanni Taormina, giornalista.

Raccontiamo il suo essere giornalista: il ramo nel quale si è specializzato, la sua vita a Palermo…  Al fine, non solo di farla conoscere ai nostri lettori, ma anche per spiegare ciò di cui andremo a parlare.

Sono nato a Trapani e con la mia famiglia ci siamo trasferiti a Palermo, proprio qui ho iniziato a interessarmi di giornalismo e, del resto, l’unica cosa che si poteva fare era cronaca.
Piano piano mi sono sempre più appassionato alla cronaca nera e, naturalmente, alla mafia.
Ho seguito alcuni processi legati a vicende mafiose. Nel momento in cui mi sono traferito a Roma, essendo io siciliano e datoil tema di cui mi occupavo, ho avuto modo di estendere la mia conoscenza ad altre mafie: ‘ndrangheta, Sacra Corona Unita, Camorra più le nuove mafie. Questo, insomma, è il mio excursus.

Cos’è è la mafia?

La mafia è un Anti- Stato, un’associazione criminale che cerca di sostituirsi ad esso.
Negli anni passati interveniva, addirittura, prima di quest’ultimo: in assenza dello Stato vi era la Mafia.

In che modo agiva?

Beh, si adoperava in caso di dispute, decideva quanto si poteva o non si poteva fare, metteva mano nelle immissioni in posti di lavoro, nel giudicare… un detto della mafia era: “Giudice, tribunale ed esecutore“.

Esatto, in parte ha anticipato quanto volevo chiederle: È possibile affermare che la mafia, al suo interno, avesse un proprio Tribunale e un proprio Codice Penale?

Più che tribunale o codice penale, la mafia, inizialmente, nasce per la questione dei terreni, i famosi campieri che lottavano contro i braccianti, cioè coloro che gestivano le terre per conto dei baroni. Da qui nasce tutto, poi si unisce il brigantaggio e il resto.
Non c’è un tribunale, semplicemente, la mafia non voleva che nei loro territori succedessero alcune cose: dal furto, allo scippo, alla rapina e all’omicidio, per non parlare di argomenti più grossi. Dalle dichiarazioni di Buscetta si squarcia il velo sulla mafia, successive, tra l’altro, a quelle di Leonardo Vitale che, non venendo creduto, fu mandato al manicomio criminale, alcuni anni dopo, una volta uscito, viene ucciso. Buscetta non fece altro che confermare e parole di Vitale: per svolgere molte attività su un determinato territorio era ed è obbligo chiedere l’autorizzazione a una data famiglia, altrimenti potrebbero partire rappresaglie.
Ecco, qual era il Tribunale che, tramite i suoi killer, eseguiva ed esegue le sentenze.
Questo accade anche nel corso delle famose guerre di mafia, perché, a differenza della ‘Ndrangheta, le famiglie mafiose sono fatte da persone di diversa provenienza che vengono affiliate alla famiglia:possono essere piccoli boss locali, rapinatori, gente che,  dato un livello criminale alto, viene avvicinato e affiliato con la famosa cerimonia.
Non è come nella ‘Ndrangheta che nella casa sono  tutti membri della stessa famiglia: si entra cioè per diritto di sangue.
Nelle altre mafie è diverso: ci si affilia perché considerati buoni soldati.

Nello specifico, nel gergo mafioso, cosa significa famiglia?

Famiglia in questo caso è quella che gestisce un determinato territorio. Vi è, ovviamente, un capo famiglia, nonché il capo mafia che, come spiegò Buscetta, faceva parte della cupola.
Al di sopra della cupola era presenta il “Capo dei Capi“.
La famiglia insiste in un territorio.

Sappiamo anche che le mafie hanno le stesse radici salvo poi ramificarsi in modi differenti. Cosa può dirci?

Le mafie sono differenti una dall’altra, è presente una somiglianza tra la camorra, la Mafia e la Sacra Corona unita, la quale si è divisa in altre mafie ovvero Capitanata, Mafia del Foggiano ecc.. In particolare, quella del foggiano è sempre stata considerata minore, sbagliando. Hanno le stesse regole, lo stesso iter.
Diversa è la ‘Ndrangheta in quanto nasce dalla vera e propria famiglia, quindi, solo per diritto di sangue.

Dunque, questo è uno dei motivi per cui i collaboratori di giustizia ‘Ndranghetisti sono pochi, nel senso, un numero inferiore rispetto ad altri?

Sì. Perché nella ‘Ndrangheta, al contrario di altre organizzazioni il collaboratore di giustizia o pentito, si trova a denunciare i propri parenti.
Buscetta non ha denunciato i propri parenti, ha denunciato un sistema, parlando di tante famiglie, di famiglie di cui anch’egli faceva parte.
I suoi parenti erano estranei sebbene, poi, inevitabilmente, hanno pagato con la vita, così come i parenti di altri pentiti.


Cosa significa per un ‘Ndranghetista  denunciare un proprio parente?

C’è un cammino interiore più forte, significa dissociarsi da quella famiglia perché, come poco fa dicevo, nella ‘ndrangheta si entra per diritto di sangue, quindi, sei cresciuto, sei allevato per divenire un capo, un ‘Ndranghetista.
Il percorso è molto più profondo rispetto a quello di un pentito di Mafia, Camorra o Sacra Corona unita.
I pentiti di ‘Ndrangheta sono pochi e sono fondamentali per comprendere le dinamiche interne alle famiglie.

I collaboratori di giustizia sappiamo essere uno strumento importante nel contrasto alle mafie. Nonostante la presa di coscienza che li ha condotti al pentimento, quanto di mentalità mafiosa è, ancora, radicata in essi?

Qui, ti dico bisogna fare un discorso molto ampio: la prima cosa da dire è, appunto, quanto è importante un collaboratore di giustizia per la giustizia stessa? E, allora, ti dico: tantissimo, senza di essi non si sarebbe potuto arrivare a certi risultati.
Poi, se il percorso sia vero o non vero, beh, questo varia da soggetto a soggetto.
Certamente, molti, hanno fatto un percorso di pentimento e ravvedimento e tanti altri, purtroppo, le cronache lo raccontano, hanno continuato a delinquere.
È importante rendersi conto che per due, tre o dieci collaboratori non deve essere l’intera categoria o tutta la figura a pagarne.
Sono importantissimi, bisogna fare tanto e tanto di più per loro.
Collaborare non è una decisione che viene presa alla leggera. Significa un coinvolgimento personale, famigliare e un mettere a repentaglio non solo la propria vita, ma anche quella dei propri famigliari, nel senso stretto e largo.
Sono svariati gli elementi da considerare, ma il fattore principale è che sono molto importanti.
Quanto rimane di mentalità mafiosa? Varia da collaboratore a collaboratore.
Certo, uno che è nato e cresciuto in un certo ambiente, con certi tipi di comportamento e regole è difficile che dall’oggi al domani si allontani da quelle abitudini.
Con il tempo e, molti, lo hanno fatto, le cose cambiano.
Ci si abitua a una vita nuova, deve essere una vita e  lo Stato deve garantirgli una vita, non deve costringerli a combattere per i propri diritti.


Come si è evoluta la Mafia nel corso del tempo?

Partiamo da un presupposto: le mafie hanno una quantità enorme di denaro intuendo le modalità di evoluzione del mondo, evolvono anche loro.
Una volta, forse, il mafioso era più facile riconoscerlo, oggi non lo riconosci: magari è un avvocato, un commercialista, un dirigente o qualunque altra cosa.
Inizialmente, le mafie appoggiavano alcuni partiti e determinati candidati, adesso non hanno più questa necessità, perché mettono i loro in lista.
Anni fa, stiamo parlando di una quarantina d’anni fa, un accadimento da analizzare è stato molto interessante: si parlava del coinvolgimento del bandito Giuliano nella formazione di un, movimento,  partito che doveva spingere la Sicilia a  diventare autonomista e chiedeva l’annessione della Sicilia agli Stati Uniti.
Negli anni successivi, certe cose si sono ripetute, si parlava addirittura di un movimento fondato da mafiosi e, naturalmente,  poi andato distrutto, per l’indipendenza della Trinacria, ossia la Sicilia.
Adesso, le mafie hanno capito come muoversi e  intervenire, una volta per portare i soldi all’estero esistevano i famosi spalloni, soggetti che  imbottivano le macchine di soldi e li portavano in Svizzera o in altri paradisi fiscali, ora con internet e  le cripto valute è molto più facile, poi, ogni tanto, c’è qualche scudo che fa rientrare i capitali dall’estero  e, dunque rientra.

Parliamo di evoluzione culturale.

È un evoluzione culturale ma anche un’evoluzione perché si adeguano ai tempi.
Una volta uno degli introiti più importanti della mafia era il pizzo, con l’avvento di droga e lavori pubblici, il pizzo continua a essere chiesto, non perché frutti chissà cosa, ma perché attraverso quest’ultimo, la mafia ribadisce la sua presenza sul territorio, l’influenza e il relativo controllo.

Entriamo nello specifico.

Tu sai che se devi fare qualcosa ci sono loro. Loro si trovano in ogni quartiere, non in un quartiere.
Le mafie non sono un fenomeno circoscritto nei territori Sicilia, Puglia, Calabria e Campania, no.
Sono dappertutto, sono in Italia, sono all’estero.

Come riescono a infiltrarsi, a mettere radici?

Diciamo che, forse, uno degli errori furono i famosi“Soggiorni obbligati“.
Cosa accadeva: molto spesso, alcuni mafiosi venivano arrestati e mandati, quindi, al “soggiorno obbligato“, qui si circondavano di compaesani e cominciavano a lavorare in quella zona.
Va sottolineato che per molti i soldi avevano e hanno tutt’ora lo stesso colore: con essi, ancora oggi, costruiscono, aprono cantieri, aziende, acquistano pizzerie e ristoranti, facendo, ovviamente, una concorrenza spietata a coloro che gli stanno vicino: pagano i dipendenti come vogliono e nessuno può lamentarsi, magari poi, risulta tutto in regola, dato che busta paga e contributi sussistono.
Vi sono state condanne a datori di lavoro che davano una retribuzione normale al proprio dipendente il quale doveva , ritornare, in seguito, di una certa somma, venendo così sotto pagati.
Questa è la modalità con la quale si infiltrano, ripeto, per molti i soldi non hanno colore, non ha importanza da dove provengono…sono soldi, possono derivare dalla droga o essere sporchi di sangue.
In altri casi, il sistema creditizio tipico italiano, facilita. Alcune aziende, pur di non fallire prendono denaro ovunque e, conseguentemente, questi si infilano in azienda lasciandoti come testa di legno, ma non sei più tu il decisore.
Ti prendono l’azienda che crea posti di lavoro e si allarga.
Lo abbiamo visto con i vari processi in Lombardia e in tutte le regioni.

Prima parlavi di guerra tra famiglie, adesso, non si spara più. Come si muovono in tal senso?

Parlando di mafia siciliana, la guerra più sanguinosa fu quella che portò i corleonesi ai vertici.
Erano chiamati“I piedi sporchi di terra“, “I contadini“ e non erano più disposti ad essere sminuiti: inizia, per cui, questa guerra, sterminando tutti coloro che gli erano contro, fino a divenire “I capi dei capi“, quindi Totò Riina e Bernardo Provenzano, già tra essi, vi era però una differenza di veduta: Provenzano era quello più dialogante, Totò Riina era quello molto, ma molto più sanguinario.
Provenzano aveva compreso che le guerre creano attenzione e una presenza maggiore di forze dell’ordine e magistratura, che non permettevano di fare affari.

Ma se Provenzano era arrivato a intuire questo, come si spiega il periodo stragista?

Perché, intanto, occorreva prendere il potere, dopo di che, si dovevano gestire gli affari.
Quindi, per acquisire potere si applicava il metodo stragista uccidendo tutti quelli che insidiavano la loro ascesa, poi si gestivano gli affari e, le cose non si potevano, dunque, risolvere con bombe e omicidi, bensì in maniera diversa.
Serviva un’altra strada.
Ricordiamoci che il “Capo dei capi “ era Totò Riina, non Provenzano.  Provenzano, latitante, lo sostituisce dopo l’arresto, Inizia una sorta di pax, ovvero pace-mafiosa.

Cosa succede, dunque? Provenzano sostituisce Riina dopo la cattura: cosa cambia?

Provenzano, come già detto, è latitante.
Cambia che occorre gestire gli affari e la guerra di mafia, infatti, ha fatto perdere a quest’ultima l’egemonia.
La mafia siciliana era leader nel mercato della droga, tanto è vero che la Sicilia si era trasformata in centro di raffineria della droga con l’aiuto dei “Marsigliesi“, chimici che venivano da Marsiglia e in Sicilia si raffinavano tonnellate e tonnellate di droga.
Questa belligeranza fa perdere i contatti con il resto del mondo di produzione di droga e leader diventa la ‘Ndrangheta.
Oggi non si comprano grossi quantitativi di droga se non c’è il nulla osta di quest’ultima.
In sintesi le guerre fanno perdere potere e affari.  Non perché non si spara, non significa che la mafia non esiste: c’è  ed è più forte e mimetizzata di prima.

È un po’ come dire che opera dal sotto suolo?

Opera dal sotto suolo, poco fa ho detto che mentre prima era più facile riconoscere un mafioso, ora è molto più difficile: può essere il tuo vicino di casa, l’’avvocato, il commercialista, l’intermediatore finanziario.
Può essere chiunque,  hanno studiato, si sono laureati, preso master, specializzazioni, può essere il medico X.
Negli anni 70 \ 80 c’erano anche i preti.
Adesso è più complicato e servono tanti strumenti per riconoscere un mafioso: le intercettazioni, gli accertamenti, i pedinamenti e tutto ciò che la tecnologia offre.


Secondo lei, è possibile che la mafia sia in grado di subire un ulteriore evoluzione? Se sì, come prevenirla?

Sì, tutto dipende da come si muove il mondo.
Le mafie hanno ceduto terreno alle mafie straniere sul versante spaccio, non c’è più il piccolo italiano spacciatore che spaccia per permettersi la sua dose. Ora sono tutti stranieri: costano meno, non parlano e hanno meno da perdere. Altri settori di competenza della mafia, adesso, sono gestiti da altre associazioni perché, sempre in accordo con altre organizzazioni, c’è altro da gestire, come gli appalti.
Sì, prevederlo è possibile, bisogna però mettere in campo strumenti nuovi e tecnologie nuove.


Farei un passo indietro nella storia e parlerei di bambini: sappiamo che il caso più eclatante  è stato quello del piccolo Di Matteo, ma  quanti bambini sono morti per mano di mafia? Quindi, ribadiamo il concetto che non è vero che la mafia non tocca donne e bambini.

Sì, prima del piccolo Di Matteo ci sono stati altri casi di bambini morti, ad esempio Claudio Domino, un bambino che venne ammazzato in un quartiere di Palermo e, ancora, la famiglia non ne conosce il motivo: stava giocando a pallone con gli amichetti.
Nel corso dell’attentato a Carlo Palermo, mentre quest’ultimo si salva,  una mamma con i suoi due figli perde la vita.
Forse, il fatto che la mafia non toccasse donne e bambini risale all’800’. 
Sono state toccate anche le figlie.  Sono presenti intercettazioni in cui alcuni pentiti parlano del fatto che, un padre,  capo mafia, se non erro di San Lorenzo,  chiede ai suoi uomini di uccidere la figlia solo perché amica di un carabiniere, senza che neanche avesse una relazione sentimentale con l’uomo.
In questi giorni, si parla della storia di un ragazzo e una ragazza di due famiglie rivali che, pur amandosi, non potevano stare insieme.
I Romeo e Giulietta della mafia di Palermo.
La mafia toglie di mezzo tutti quelli che creano intralcio: donne, bambini e anziani.
Quella di Di Matteo è la storia che  ha fatto maggiore scalpore in quanto venne sequestrato per convincere il padre a ritrattare.
Fu sequestrato e tenuto prigioniero per anni da quello che chiamava “zio“, nonché Brusca.
L’epilogo, stando alle carte, fiu che Matteo Messina Denaro, decise di chiuderlo e quindi, ucciderlo e scioglierlo nell’acido.
Tanti cadaveri non sono mai stati trovati: in primis perché buttati in cavità carsiche situati sulle montagne siciliane, secondo perché disciolti nell’acido.
Il primo esempio di bambino ucciso si ebbe negli anni  quaranta a Corleone.
Giuseppe Letizia,  pastorello, che stava facendo pascolare le pecore, assistette all’uccisione di un sindacalista,  Placido Rizzotto, ucciso da Luciano Liggio e fatto sparire all’interno di una grotta sulle montagne siciliane, per mandato di Michele Navarra, capo mafia di Corleone e medico.
Il piccolo fu ritrovato dal padre il giorno dopo con la febbre alta e delirando raccontò di un contadino che era sta stato ammazzato.
Fu portato dal padre presso l’ospedale “ Dei Bianchi“ diretto, proprio, dal capo-mafia Navarra, dove l’ undici marzo morì, ufficialmente, per tossicosi.
È una storiella quella che bambini  non vengono uccisi.

Qual è, attualmente, la posizione della donna?


Le donne hanno un ruolo importante in quanto sono coloro che dovranno crescere i figli che saranno, a loro volta, il futuro delle famiglie mafiose.
Da alcuni atti processuali emerge che, molte, sono maltrattate e devono solo obbedire.
Una delle leggi non scritte della mafia siciliana era che: potevi avere tutte le amanti che volevi, ma non dovevi divorziare da tua moglie
Semplicemente, non andava bene.
Questo è uno dei motivi per cui, Buscetta, pur essendo chiamato “Il boss dei due mondi“ non ebbe una grande carriera mafiosa: aveva divorziato due volte.
Altre inchieste indicano le donne quale anello di congiunzione tra l’arrestato e il resto della famiglia, in quanto passano gli ordini che il capo da dal carcere e gestiscono gli affari della famiglia.
Attualmente, sono molte quelle al quarantuno bis e notizia di cronaca è l’arresto della sorella di Matteo Messina Denaro, figura chiave e fondamentale, sia durante la latitanza che nel governo degli interessi economicii del fratello.
Una funzione di rilievo.

Tutto ciò che ci siamo detti fino ad ora, come può essere spiegato ai giovani?

Io parto da una frase ripetuta, sempre, da Borsellino: “ Parlare di mafia, parlatene alla radio, in televisione, sui giornali, però parltene “.
È  chiaro che non bisogna raccontare fiabe, ma descrivere, concretamente, di cosa si tratta, mai mitizzare i mafiosi, mai trasformarli in super eroi perché fanno la vita che vogliono.
Occorre raccontare cos’ è la mafia e inculcare loro cosa significa la mafia per un territorio: essa non porta sviluppo anzi, il contrario.
Bisogna far comprendere che questi grandi boss possono fare la vita che desiderano,  ma prima la loro è una vita di merda, perché prima o poi sono costretti a pagare il conto con la giustizia.
Una delle frasi ripetute  da Toto Riina era: “Meglio comandare che fottere“.
A questi giovani bisogna insegnare che la mafia non solo non porta a niente, ma non dona la vita: si è costretti  a sottostare a quello che ti viene imposto.
Serve portare esempi concreti e testimonianze.
Occorre un percorso scolastico che preveda, oltre allo studio delle guerre puniche o quant’altro, anche l’analisi del fenomeno mafioso.
Se i ragazzi sono preparati a un certo tipo di percorso capiscono non solo ciò di cui si sta parlando, ma anche la pericolosità di esse.
Bisogna fare incontri nelle scuole e porli innanzi al vero senso della  “mafia “ e non affermare: “Tanto qui non ce l’abbiamo “.
Mettiamoci in testa che non esiste un territorio immune alle mafie, dobbiamo coinvolgere i ragazzi e, occorre, che essi vengano consigliati dai docenti ed esperti su come affrontare il prolema.

Lei era a Palermo quando i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono saltati in aria. Qual è stata la sua reazione? Ha mai pensato che la lotta alla mafia fosse giunta al termine?

Ero a Palermo quando sono saltati in aria entrambi, con conseguenze tanto personali quanto affettive.
Sono stato tra i primi ad arrivare in via D’Amelio , ho visto come si era trasformato quel luogo.
Mai titolo è stato più giusto: “Palermo come Beirut“.
Che la lotta alla mafia fosse finita non l’ho mai pensato: da quel giorno è cominciata in maniera, per tutti, più coinvolgente la ribellione a un sistema.
Mentre fino a Falcone, Borsellino le forze dell’ordine che fino a quel giorno erano isolati,  in seguito, a questi fatti, si sono aggiunti giovani, persone normali che,  affiancandosi ai magistrati,  hanno dato man forte e denunciato quanto accadeva.
Non scordiamo la reazione dei palermitani e dei siciliani al funerale di Falcone: il lancio degli insulti, di monetine.
Non scordiamo le parole, forti, dell’allora Arcivescovo di Palermo, Pappalardo: “Palermo espugnata mentre a Roma si parla“.
I grossi fatti di sangue hanno sempre creato una reazione da parte della popolazione che, in alcuni casi, fu debole.
L’omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa e della sua giovane sposa ebbero come risultato un murales: sul muro dove furono uccisi, comparve la scritta “ Qui muore la speranza dei palermitani onesti“.
Forse, in quegli anni, era ancora in embrione, dopo gli omicidi di Falcone è scoppiato,  e dopo  Borsellino si è tramutato in un fiume in piena: sono nate tante associazioni e gruppi di giovani per contrastare tale fenomeno.
Vi è un altro omicidio, quello di un prete. La prima volta che la mafia uccide un uomo di chiesa.


Sì, Don Pino Puglisi..

Esatto, chiamato anche tre P -Padre, Pino, Puglisi-
Un prete palermitano che operava in una zona disastrata di Palermo accompagnato da grossi attacchi, perché tutti questi personaggi hanno subito attacchi, sino a  giungere alla delegittimazione.
Don Pino Puglisi è stato attaccato anche da altri preti.
Ciò che è stato fatto da queste vittime del dovere ha seminato tanto e, con il tempo, tutto è germogliato.
È nata, ad esempio, l’associazione “Addio Pizzo “ creata da quattro ragazzi che iniziarono a tappezzare i pali di Palermo con manifesti invitanti a denunciare. Questo agire ha avuto un seguito, perché se lo Stato è presente tutto si risolve: dopo Libero Grassi molti imprenditori hanno denunciato il pizzo, imprenditori si sono recati in Tribunale a indicare persone che gli avevano preso il pizzo.
Poi, molte cose si sono perse, perché lo Stato deve esserci, sempre, non solo quando c’è una strage o un attentato.
Lo Stato deve esserci, costantemente.

Passiamo a un discorso educativo.
Non serve appartenere a organizzazioni criminali per assumere comportamenti mafiosi. Quali sono i tipici modi di fare mafiosi?

Intanto non bisogna essere mafiosi per avere determinati comportamenti.
Il mancato rispetto delle regole di legge o quella di una norma non necessariamente giurisprudenziale, imporre il proprio parere, saltare la fila. Il così detto: “Lei non sa chi sono io“, rientrano in questa casistica. Si aggiungono atteggiamenti di menefreghismo nei confronti di chiunque.
Questo è il modo di fare mafioso che poi scaturisce anche nel comportamento mafioso. Entrambi, sono altra cosa rispetto all’appartenere a un’associazione mafiosa.

Per fare antimafia, quali doti o competenze occorrono? Basta una semplice passione?

No, per passione puoi far parte di un’associazione. Per fare antimafia occorre la conoscenza del fenomeno, sia per averla studiata sia per averla vissuta.
Bisogna dialogare con tutti e, nel momento in cui si parla, si deve conoscere quanto si sta dicendo.
Occorre, soprattutto, fare seguire alle parole i fatti.
Non puoi predicare bene e razzolare male, perché è sbagliato.
Devi essere il primo a dare l’esempio e il primo a conoscere le cose di cui stai parlando.
Non puoi parlare di una cattura, di un’operazione se non conosci le carte, lo stesso vale per il fenomeno del pentitismo, se non conosci i pentiti è impossibile discorrerne.
Il fenomeno del pentitismo nacque prima nella lotta al terrorismo, oltre al quale fu introdotta  la dissociazione per ottenere alcuni benefici, cosa che non è stata possibile applicare nella lotta alle mafie.
Molti pentiti hanno cambiato modo di vivere e di essere,  alcuni per convenienza, altri ravvedimento o determinati motivi personali.
Brusca, uno dei carnefici del piccolo Di Matteo, si pentii, cambiò letteralmente vita, si avvicinò alla religione: c’è sempre qualcosa che  ti capita di fare nelle vita criminale che ti lascia un segno indelebile, anche,  rispetto ad altro che hai commesso.
Da qui, inizia il percorso verso il pentimento, che sia conveniente o meno, non lo so.
L’importante è che sia conveniente allo Stato, che si riesca cioè a disarticolare alcune organizzazioni criminali.


Da giornalista, sta assistendo, come tutti noi,  alla sempre più frequente creazione di pseudo canali di
informazione non regolarmente iscritti in tribunale e, dunque, ben lungi dall’ordine dei giornalisti, ma che asseriscono di fare informazione anti-mafiosa. Cosa ne pensa?

Da giornalista ti posso dire che, chiunque vuole fare giornalismo senza esserlo, non lo vedo di buon occhio.
La comunicazione ha dei canali ufficiali, regole deontologiche e di comportamento.
Il resto, può essere considerato una sorta di “Pour parler“ , ’importante è come se ne parla e, soprattutto,  quanto si dice, perché un domani una comunicazione errata  potrebbe affossare l’immagine, nel senso : “L’avete detto voi“.
Oggi la comunicazione è cambiata tantissimo grazie all’avvento di internet e dei social, ma non tutto ciò che dicono internet e social è vero.

Quindi, è d’accordo con me quando dico che fonti ufficiali sono solo quelle iscritte in tribunale e non altri strani canali?

Alcuni canali possono, se costruiti con criterio, avvicinare la gente a comprendere, ma non sono canali d’informazione.

Esatto, dunque, sono opinioni.

Sì, opinioni, non informazioni.

Tra l’altro, opinioni da prendere, molto spesso,  con le pinze.

Sì, perché qualunque cosa venga detta, in particolare, nel campo della lotta alla mafia, qualunque affermazione, deve avere dei riscontri.
Io, domani, non posso scrivere che il Signor X è un assassino: ne rispondo penalmente e civilmente.
Lo posso scrivere se c’è una condanna ma, in ogni caso, fino a quella passata in giudicato, devo utilizzare l’aggettivo “presunto assassino“, in quanto non ho le carte per poterlo asserire, anche se è stato arrestato e la condanna non è passata in giudicato.
Posso pensare che è torbido quanto gira intorno a questo episodio, ma è una mia opinione da professionista e da giornalista che si occupa di ciò da vent’anni, ma non posso certo scriverlo, non posso diffonderlo: è un mio pensiero che, forse, mi servirà per portare avanti un’ inchiesta.
Solo se questa opinione mi condurrà ad avere riscontri potrò divulgarla.

Si parla, spesso, di fuga di notizie. Esistono realmente queste presunte fughe?

Sono tante le inchieste che, doverosamente, sono state aperte sulle presunte fughe di notizie, molte delle quali non hanno portato a nulla.
Il più delle volte, a passare le notizie a noi giornalisti, sono gli avvocati, una volta ottenuto che gli atti formanti il fascicolo processuale vengano depositati, o i consulenti di parte .










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