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Diritti Umani e Intervento Psicologico. Intervista a Gabriella Scaduto, psicologa, psicoterapeuta, segretario dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia e presidente dell’associazione ReDiPsi.

| Mara Cozzoli | ,

Uscito mercoledì 3 novembre Diritti Umani e Intervento Psicologico”,  volume di Pietro Barbetta – direttore del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, docente di Teorie psicodinamiche all’Università di Bergamo e membro di World Association for Cultural Psychiatry (WACP) – e di Gabriella Scaduto – psicologa e psicoterapeuta, segretario dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia e presidente dell’associazione ReDiPsi Reti di Psicologi per i Diritti umani, nel quale si racconta del ruolo chiave della psicologia, da un punto di vista umano e professionale, alle prese con le gravi violazioni di diritti umani. Il libro è un’alternanza di esperienze personali e considerazioni oggettive, di esperienze del passato e del presente, che vanno, ad esempio, dal fenomeno dei desaparecidos al genocidio armeno, dalle persecuzioni razziali allo stupro di guerra, dal discorso omofobico ai diritti dei bambini e degli adolescenti. In questo scenario, la psicologia non solo si fa portatrice di una prospettiva nuova e di una diversa di lettura dei fenomeni sociali, ma mostra di poter svolgere un ruolo di primo piano nel superamento dei traumi causati dalle gravi violazioni dei diritti umani.
Ne parlo oggi con Gabriella Scaduto.


Come e quando nasce il libro dal contenuto che, mano a mano, andremo a raccontare?

Questo libro nasce tre anni fa da un incontro di esperienze, mio e del professor Pietro Barbetta, proprio sulla tematica al confine fra psicologia e diritti umani. Entrambi abbiamo avuto importanti esperienze nel lavoro sul campo con i diritti umani ed entrambi avevamo notato che questo termine, in Italia, veniva utilizzato poco e in modo non sempre appropriato in relazione all’intervento psicologico. Vi erano certamente competenze molto specifiche nei due settori, anche operanti in sistemi di protezione contigui, che troppo raramente dialogavano utilizzando lessici comuni. Inoltre, dato che  gli psicologi sono per natura orientati alla cura ove vi sono violazioni diritti e conseguenti traumi, in quanto psicologi e psicoterapeuti abbiamo convenuto che occorresse un testo che provasse a mettere assieme, in forma di narrazioni, diverse voci ed esperienze sul tema.


Il saggio si articola in più parti.

Il libro si apre con una prefazione illustre, Fausto Pocar fornisce un’introduzione tecnica che inquadra chiaramente il fenomeno dei diritti umani e delle potenziali violazioni da un punto di vista squisitamente giuridico. Il volume fornisce poi un inquadramento rispetto alla cornice etica del lavoro psicologico, delineando con chiarezza come il buon modo di lavorare degli psicologi sia direttamente interconnesso e discendente dal dibattito inerente i diritti umani fondamentali.
Si scivola poi sul piano tecnico, dove, anche per la mia esperienza sul campo, non possono che intersecarsi almeno tre discipline: giurisprudenza, psicologia ed economia.  Qui si dipanano esperienze diverse in svariate aree del mondo. I temi affrontati sono differenti: memoria dei giusti, genocidio armeno, violazione dei diritti umani e contesti internazionali di intervento, diritto al riposo in Cile, desaparecidos in Argentina, stupro di guerra. Si passa poi a una riflessione sul corpo della donna come campo di battaglia, sulle ferite dell’anima, l’infanzia negata…
La terza parte del testo, più clinica, riguarda tortura e scenari di tortura, i sopravvissuti,  come aiutare le vittime a lasciare la propria prigione (quella psicologica), la mappa delle esperienze sul corpo, ecc.. con e esperienze terapeutiche portate da autori provenienti da tutto il mondo.
Il libro si conclude con un appendice circa i diritti in emergenza e come ci si affianca ad essi in queste circostanze.
La postfazione di Luigi Zoja propone un’analisi colta e dettagliata rispetto al macrotema del diritto.
Posso dirle che è il primo libro che affronta questo argomento in Italia in questo modo.


Vi è un elemento fondamentale per chi lavora con i diritti e per i diritti: non può prescindere da determinate varianti.


Esatto, non si può prescindere dal contesto in cui ti trovi, cioè da cultura, lingua, tradizioni e ambiente.
Un intervento psicologico efficace deve tenere presente tutto ciò, a maggior ragione quando si lavora in contesti internazionali.
Questo l’ho imparato in Bolivia seguendo vittime di tratta e violenza sessuale e di genere.È un messaggio per gli psicologi in particolare: non si può lavorare, e lavorare bene, senza conoscere le cornici di diritto e di diritti che vigono ove si opera.


Il discorso che ruota intorno alle varianti è molto affascinante: come si potrebbe sviluppare?

Le porto un esempio molto pratico, come le spiegavo ho lavorato per Unicef Bolivia, in collaborazione della Procura Generale di Stato boliviana; mi occupavo di un progetto relativo a un’unità speciale legato appunto alle vittime di tratta, violenza di genere e violenza sessuale.
Quanto  ho appreso sulla mia pelle, è stato che, arrivata in Bolivia, mi sono trovata innanzi a un contesto sociale totalmente differente rispetto a quello a cui ero abituata.
In questo Paese si parlano ufficialmente quattro lingue, quindi, la lingua ha un significato molto profondo, perché quello che viene detto con la sfumatura di una parola, soprattutto per noi che lavoriamo con le parole, per un paziente ha significati diversi, in base a come la usi e alla cultura.
Presa la Bolivia nel suo insieme, abbiamo riscontrato diversità incredibili, a livello di costumi, culturale e di approccio sociale.
Quando si decide di applicarsi a  determinati contesti, non si può prescindere dal fatto che bisogna analizzare diversi elementi, con ciò c’è un elemento che rappresenta una costante che li attraversa tutti: i diritti sanciti dalle convenzioni.
I diritti rappresentano il terreno comune dove la psicologia può incontrare ed offrirsi ad infinite diversità.
Non si può, ad esempio, pensare di lavorare in Sud America, come si lavora in Italia, ma in entrambe le realtà si può lavorare come psicologi nella tutela dei medesimi diritti fondamentali.

Rispetto a queste realtà mi parlava di approcci.
In che modo i criteri con cui vi avvicinate alla vittima si diversificano?

Tutto dipende dal tipo di trauma sul quale si sta lavorando,  di vittima,  dal contesto e da tutto il contorno.
Non esiste un orientamento teorico che sia più valido dell’altro.
Ogni psicologo ha una sua specializzazione e se scientificamente fondata, merita rispetto e fiducia, non è questo il discorso principale.
Per poter lavorare con una vittima non è tanto questione di orientamento bensì di conoscenza del contesto innanzitutto, del territorio in cui ti stai muovendo, della giurisprudenza, del funzionamento del sistema, della cultura, della lingua.
Vi sono tante  variabili che  vanno  dunque considerate prima di approcciare un soggetto.
Ad esempio, se si opera in Italia e il soggetto è un migrante è fondamentale tenere presente il viaggio che questa persona ha fatto, lasciandosi dietro la propria storia, la propria famiglia, passando magari per torture in altri Paesi. A partire da qui subentra la competenza clinica che deve essere sempre alta e attenta. Quando si opera con i diritti i soggetti sono spesso soggetti pluritraumatizzati, difficili, no riconducibili ai soggetti sui quali si costruisce tradizionalmente la competenza clinica. Sono un target specifico che richiede specifiche azioni e conoscenza anche cliniche specifiche.
Insomma, si lavora su tanti livelli.


In termini di psicopatologie, quali possono essere le conseguenze su chi subisce queste feroci violenze?  Se parliamo di stupro di guerra, quali possono essere le ripercussioni su una donna?

Parlare di un singolo disturbo o di un’unica sintomatologia è molto riduttivo.
Chiaramente si possono riscontrare elementi depressivi, ansiosi e tutta una serie di patologie connesse al trauma e ai disturbi post traumatici.
Non credo di possa attribuire schematicamente una psicopatologia rispetto a un’altra in questi casi.
Parliamo di contesti complessi, fenomeni complessi e comunque sempre nell’ambito di esperienze uniche di persone uniche.
Come dicevo prima le costanti sono i diritti, è costante il trauma, ma non il tipo di risposta traumatica alle loro violazioni.

C’è un punto a cui volevo proprio arrivare: violenza fisica e psicologica viaggiano di pari passo, non sono elementi dissociati l’uno dall’altro.

Esattamente, ma non solo. In alcuni contesti si aggiunge la violenza sociale.
Parlando di stupro di guerra, se una donna viene stuprata, non può essere riaccolta nella comunità di appartenenza.
Succede che si ritrova a non poter rientrare perché sporca, perché è stata violata: il nemico ha innestato una sua eredità.
Lo stupro è una strategia di pulizia etnica in cui il nemico violenta la donna, deposita un seme per avere una nuova discendenza, con l’intento di cancellare un’etnia e generarne una nuova.
Vi è quindi una donna rifiutata dalla sua comunità di appartenenza con il figlio del suo stupratore in grembo, un mancato riconoscimento di questo bimbo, non riuscire a rifarsi una vita: come se queste donne fossero sospese.
Le ripercussioni sono di conseguenza tanto sociali, quanto fisiche e psicologiche, queste ultime sono spesso molto pesanti, ancorché invisibili.
Spesso chi subisce un abuso, subisce anche una tortura.
Per tale motivo è molto complesso e non si può fare un elenco di psicopatologie.
Ogni caso è un caso a sé, come una persona è una persona a sé.

In che modo psicologia, scienze sociali e giurisprudenza vanno poi ad incrociarsi?

Chi lavora con i diritti umani, lavora con le convenzioni internazionali.
Esempio pratico: La “Convenzione per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza” che è stata ratificata da quasi tutti i Paesi del mondo, tranne Stati Uniti.
Quando uno Stato giunge a ratificare, la Convenzione questa diviene legge all’interno del Paese e, ogni legge speciale emanata, deve rifarsi alla Convenzione.
Io che sono un’operatrice che si muove sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, non posso non conoscere quanto mi dice la Convenzione, perché quest’ultima non è solo un insieme di articoli messi in croce, ma divengono uno strumento operativo, tanto nella progettazione, quanto nell’intervento.
Altro esempio: Diritto alla Partecipazione.
Il diritto alla partecipazione sancito in Convenzione, ci dice che il minore deve partecipare a tutti i procedimenti che lo riguardano, potendo esprimere la propria opinione, non è più oggetto di tutela dello Stato, della comunità, ma soggetto attivo di diritto che può esprimere la sua opinione.
Qualunque psicologa, psicoterapeuta, giudice, assistente sociale e avvocato dovrà tenere conto di questi principi e muoversi all’interno di quel perimetro,  anche quando va a fare una progettazione sociale.
Se io faccio un progetto per un quartiere, per una città o un intero Stato, per quanto riguarda l’infanzia, devo sempre seguire alla lettera i principi di quella Convenzione.
Siamo a tutti  gli effetti immersi in un sistema sociale di diritti e di diritto e siamo persone. Il chiarimento completo di questo incrocio è proprio nel libro e nella sua complessità.


Poc’anzi abbiamo accennato ai principi etici, approfondirebbe anche questo aspetto?

L’etica professionale è la guida, in termini di principi, del corretto agire psicologico.
L’etica, che ha carattere universale, combinandosi con il diritto e con elementi culturali fonda la deontologia, ovvero l’insieme dei precetti che ogni professionista deve seguire nell’operare.
Ciò che abbiamo approfondito noi è il non sempre consapevole legame fra i principi etici universali che guidano l’agire psicologico e i diritti umani fondamentali.
Il legame stretto che abbiamo individuato nella pratica clinica fra lavoro psicologico e tutela dei diritti violati è quindi altrettanto stretto nella sfera macroscopica dell’etica professionale.


Le pongo una domanda che è più di natura personale, esterna, rispetto al contenuto del libro.
Come si può, di fronte a queste situazioni rimanere distaccati, senza farsi coinvolgere dal punto di vista emotivo?

Questo è parte del lavoro che fanno lo psicologo e lo psicoterapeuta, e non lo definirei distacco quanto competenza nella comprensione, interpretazione e gestione di se stessi, delle proprie emozioni e reazioni.
L’equilibrio, la giusta distanza pur accompagnata da una sincera ed empatica accoglienza nascono da buone competenze cliniche e da saldi riferimenti etici, non c’è altro.
Ribadisco, è un campo dove è importante è il bagaglio di competenza che ti porti dietro a fare la differenza.


Soprattutto lavorando in questi contesti che sono realtà molto dure e che non sono l’Italia, è esatto?

Nì, nel senso che noi abbiamo preso contributi da tutto il mondo, ma tutto il mondo può trovarsi in Italia e soffrire di diritti violati.
Pensi ai flussi migratori, di cui non abbiamo scritto nel libro, pur essendocene occupati con Barbetta in altri contesti. Quando giungono i migranti non dobbiamo scordarci che essi sono portatori di storie e di diritti spesso violati.
Sono persone sradicate dalla loro cultura che, spesso, si soffermano in un altro Stato subendo torture, viaggiano per mare con il rischio di perdere la vita, lasciano tutto, non parlano italiano, hanno magari spezzato i legami familiari, sono state vittime di abusi e….
Queste realtà non sono tanto distanti da noi.


Si può dire che non tutti, nonostante l’essere psicologi o psicoterapeuti, possono intraprendere questo percorso?

Non ho detto questo.  
Il nostro codice deontologico dice che per un determinato tipo di intervento, lo psicologo deve essere consapevole delle competenze che possiede.
È importante ricordare che non siamo tutti un po’ psicologi.
Quella dello psicologo è una professione, lunga e difficile, che va ancora molto compresa nelle sue specificità e caratteristiche. Iniziamo da qui.



Mara Cozzoli

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