
Se queste parole vi giungono, sappiate che Israele è riuscito a uccidermi.
L’ultimo messaggio di Anas Al Sharif, giornalista di Al Jazeera, ammazzato insieme ai suoi colleghi a Gaza. Con loro muore la libertà di raccontare sotto le bombe.
Non serve la retorica quando la verità sanguina. Ad Anas Al Sharif, giornalista palestinese di Al Jazeera, hanno strappato l’autenticità insieme alla vita.
Ucciso a Gaza durante un bombardamento israeliano, ennesima vittima di un conflitto che Israele insiste a spacciare per “difesa”, ma che giorno dopo giorno si rivela per ciò che è: un’operazione sistematica di annientamento, non solo dei corpi, ma anche delle parole.
Chi testimonia diventa bersaglio. È il principio che anima ogni potere che teme la luce: eliminare chi documenta.
Sharif non era un combattente; non impugnava fucili.
In quel dedalo di macerie, la telecamera che lo accompagnava era testimonianza quotidiana del genocidio in corso.
La sua voglia di dimostrare era più temuta di un arsenale.
Anas lo sapeva. A luglio aveva confidato di vivere con la «sensazione di poter essere bombardato e martirizzato in qualsiasi momento». Non era paranoia, ma lucidità.
Poco prima di morire, ha consegnato al mondo il suo ultimo avvertimento:
«Se queste parole vi giungono, sappiate che Israele è riuscito a uccidermi».
Al pari di un testamento morale, ci ha lasciato il suo intimo sentire, che oggi suona come un atto d’amore e un’accusa irrimediabile:
«Ho profuso tutte le mie energie e le mie forze per essere un sostegno e una voce per il mio popolo, fin da quando ho aperto gli occhi alla vita nei vicoli e nei quartieri del campo profughi di Jabalia. Speravo di poter tornare con la mia famiglia e i miei cari nella nostra città natale, Ashkelon (al-Majdal) occupata, ma la volontà di Dio era più grande e il Suo giudizio vincolante. Ho vissuto il dolore in tutti i suoi dettagli e ho assaporato ripetutamente il dramma e la perdita. Nonostante ciò, non ho mai esitato a trasmettere la verità così com’è, senza falsificazioni o distorsioni. Che Dio sia testimone contro coloro che sono rimasti in silenzio; contro chi ha accettato la nostra uccisione; contro chi ha assediato il nostro respiro e non ha lasciato che i resti dei nostri bambini e delle nostre donne si muovessero nei loro cuori; e contro coloro che non hanno fermato il massacro a cui il nostro popolo è stato sottoposto per più di un anno e mezzo».
E ancora:
«Vi affido la Palestina, il battito cardiaco di ogni persona libera in questo mondo. Vi affido il suo popolo e i suoi giovani bambini oppressi, che non hanno vissuto abbastanza a lungo per sognare e vivere in sicurezza e pace. I loro corpi puri sono stati schiacciati da migliaia di tonnellate di bombe e missili israeliani, fatti a pezzi, e i loro resti sparsi sui muri. Vi prego di non essere ridotti al silenzio dalle restrizioni, né paralizzati dai confini. Siate ponti verso la liberazione della Patria e del suo popolo».
Con lui sono caduti altri quattro colleghi. Professionisti che avevano scelto di restare e informare fino all’ultimo respiro.
Un’intera generazione di cronisti sta pagando con la vita il “reato” di descrivere, in diretta, la distruzione della propria terra.
Stime approssimative parlano di 230 giornalisti palestinesi uccisi a Gaza dall’inizio dell’offensiva. Una strage senza precedenti nella memoria recente.
Ancor in anticipo rispetto all’assassinio del giovane uomo, l’IDF ha cercato di minarne la credibilità, dipingendolo come leader di una cellula di Hamas attribuendogli, inoltre, attacchi missilistici contro civili israeliani e militari.
Deligittimazione, dunque, e successiva eliminazione.
Al Jazeera ha rigettato questa narrazione, denunciandola come l’ennesimo tentativo di costruire prove su misura per trasformare un cronista in un bersaglio legittimo.
È un meccanismo rodato, lo conosciamo: mutare un giornalista in “terrorista” per far scomparire l’omicidio sotto l’etichetta rassicurante di “operazione militare”.
La morte di Anas Al Sharif non è un “danno collaterale”, bensì un attacco mirato.
É un monito: in questa guerra, il giornalismo è un crimine capitale.
Gaza è ormai un cimitero di reporter perché la cronaca immediata di ciò che accade è un ordigno politico: sgretola le versioni ufficiali, incrina il consenso, smaschera il fatto che dietro formule come “azione bellica” si cela un popolo intero ridotto in frantumi.
Il vero scandalo non è solo l’assassinio di un uomo, ma anche la dottrina di fondo secondo cui, se scomoda, la realtà deve essere annientata, con ogni mezzo.
Qualcuno però scorda un particolare: essa, come la polvere, penetra ovunque.
E Anas, persino da morto, continuerà a vivere e respirare nelle immagini che ci ha donato.
Benjamin Netanyahu,, da tempo, ha superato ogni linea rossa.
Mara Cozzoli
