
“Parole oltre le sbarre”: il Festival delle Lettere libera la voce dei detenuti.
“Caro Carcere,
mai avrei pensato di definirti così. E non sempre è così, ma mi rendo conto che se non ci fosse stato
questo stand- by nella mia vita probabilmente ora di caro non avrei più nulla. Quando cadi in una
dipendenza, finché non vieni prelevata da quell’ambiente, mai ti renderesti conto di quanto tu stia toccando il fondo. In queste quattro mura rivedi tutta la tua vita in un grande flashback di quello che eri, sei stata e ora sei e prendi consapevolezza di aver sbagliato tutto.”
La XIX edizione del “Festival delle Lettere” si è chiusa, lo scorso 24 luglio, alla Fabbrica del Vapore di Milano, con un appuntamento capace di superare confini fisici e simbolici: “Parole oltre le sbarre”.
Un reading intenso in cui sono state portate sul palco le parole scritte dai detenuti.
Pagine nate tra le mura di una cella e giunte al pubblico senza filtri, capaci di mescolare ironia e dolore, ricordi e speranze.
Quanto emerge, inoltre, è una forte presa di coscienza.
“Caro amico,
nell’ultima mia ti dissi che avevo intenzione di cambiare casa. Ho risolto! Da qualche tempo mi sono trasferito nell’hinterland milanese e precisamente in una frazione di Opera. È un condominio formato da un’infinità di locali a schiera su quattro piani, già ammobiliati; l’Amministratore è stato categorico: “non si possono sostituire i mobili, né tantomeno cambiarne la collocazione” ha detto. E per non correre rischi, ha inchiodato tutti i mobili alle pareti, non contento di questo, ha pure murato il letto al pavimento. Dev’essere un tipo strano questo Amministratore, o forse sono le direttive del proprietario dell’immobile.
Mi informerò.”

A spiegare il senso di questo evento è Gaia Geremia, responsabile operativa del “Festival delle Lettere“, che da vent’anni custodisce e diffonde la bellezza della scrittura epistolare:
«Il Festival nasce nel 2005, quando un gruppo di amici appassionati di lettere si è chiesto se, in un mondo dominato da strumenti di comunicazione sempre più rapidi, la scrittura a mano potesse sopravvivere. Da allora raccogliamo migliaia di lettere, ogni anno diverse, ma sempre capaci di toccare l’anima. La scrittura epistolare è una forma intima, che porta a confidarsi in un modo che forse non faremmo mai a voce».
Per Gaia, inoltre, “Parole oltre le sbarre“ è stata la chiusura più naturale per il Festival:
«La scrittura annulla ogni distanza, anche quella fisica tra chi vive in carcere e chi sta fuori. Le loro storie, lette ad alta voce, hanno azzerato il confine».
Prosegue Eleonora Cicconi, di “Opera Liquida”, che da anni lavora in carcere con progetti teatrali. Questa volta non ha portato in scena i detenuti, ma ha prestato la sua voce alle loro parole:
«Nel reading non ci si muove, non ci sono luci o costumi: tutto si affida alla voce. È stato fortissimo dare voce alle lettere, sentire l’ironia e la resistenza nascosta tra le righe. Il teatro, e la scrittura, permettono di togliere maschere imposte dalla vita e ritrovare la persona che c’è sotto. Spesso, infatti, raccontano di essersi sentiti, nel corso della loro esistenza, quasi forzati a indossarne una: quella del prepotente o del cattivo, per resistere all’ambiente in cui vivevano. Con il teatro si può giocare, si può andare a ricercare la persona che c’è sotto e indossarne altre: si può diventare bambini, animali, donne».

“Verso le 5.30 faccio il primo caffè della giornata. Apro la finestra e da fuori arriva un’aria fresca, pulita; come un assaggio di primavera spunta anche il sole e i pensieri diventano più leggeri e positivi… Dopo andrò a visita medica dallo psichiatra per esporgli i miei demoni notturni, ci sarà probabilmente anche la psicologa.”
Così dice uno degli scritti interpretati nel corso della serata.
Anna Bonanomi, de “La Valle di Ezechiele”, conosce bene il muro del pregiudizio:
«Quando andavamo a visitare capannoni da affittare, i proprietari decidevano di non darcelo quando scoprivano che dovevamo fare attività con i detenuti.
Anche per quanto riguarda le commesse di lavoro c’è sempre un po’ di resistenza, perché per l’imprenditore l’idea che i suoi prodotti vengano trattati dalle mani di ex detenuti che hanno compiuto reati non trasmette tranquillità. Insomma, bisogna sempre cercare di passare oltre questo pregiudizio per dimostrare che, in realtà, chi sbaglia non necessariamente è sbagliato per sempre».
Don David Maria Riboldi, della stessa realtà, sottolinea invece la dimensione educativa della spiritualità:
«Il percorso di fede è parte dell’area trattamentale delle carceri. Commentare il Vangelo è un atto culturale e di persuasione al bene. La spiritualità diventa una forza educativa unica, capace di entrare nel cuore e nella mente. Il percorso spirituale nasce dalla partecipazione alla messa della domenica; alcuni sentono il bisogno di confessarsi o di ricevere i sacramenti, quindi di fare un percorso di catechismo.
A volte, trova origine anche in percorsi di presa di consapevolezza di sé, dove si attinge a ragioni di profondità che, magari, ordinariamente restano inesplorate, e quindi ci si rende conto che quello è un terreno talvolta scivoloso, impervio, e che serve qualcuno che ti aiuti. Facciamo anche la Via Crucis. Nella primissima che feci, affidai la prima stazione “Gesù è condannato a morte” a una persona che ritenevo essere in carcere da innocente e che poi, effettivamente, risultò tale agli altri gradi di giudizio.
Lui commentò la situazione di Gesù: “L’innocente è condannato a morte” sentendosi totalmente in tutt’uno con Gesù: anche lui innocente, condannato a morte».
Infine, ci sono loro, protagonisti di un percorso duro, ma portatori di un messaggio forte: nella vita si sbaglia, ma si può riprendere in mano il proprio cammino, colorandolo dei colori che si desiderano.
Nino, oggi impegnato nei terreni e frutteti della cooperativa, ricorda la forza delle lettere:
«Scrivevo ai miei quattro figli. Era difficile, ma ricevere e mandare lettere mi faceva stare bene». Poi si racconta:
«Ho scontato la mia condanna da un anno e sono rimasto qui a “La Valle di Ezechiele“. Adesso mi occupo di terreno e frutteto. Mi trovo bene.
In carcere, sono stato aiutato dalla mia educatrice che ha parlato con Don Davide. In seguito, è arrivata Anna: ho fatto il colloquio e sono stato preso in cooperativa. Quando è successo, non ci credevo neanche io».
Mondi, dall’Albania, presso la medesima struttura si dedica all’inserimento dati, oltre a essere un abile artigiano:
«Scrivere in carcere è un modo per sfogarsi. Parti con poche righe e finisci con pagine intere, perché gli affetti ti mancano. Quando inizi una lettera in carcere, pensi di scrivere quattro parole… invece le parole non hanno fine. Qui ho avuto un’opportunità che non tutti hanno: ricominciare e dare senso alla vita, aiutare la mia famiglia».
“Parole oltre le sbarre” ha dimostrato che la scrittura può abbattere muri, reali e invisibili.
E che, a volte, basta una penna per restituire dignità e futuro.
Ma soprattutto, ha ricordato a tutti che dietro un errore non c’è solo la colpa: c’è una persona, con un cuore che batte e una voglia ostinata di ricostruirsi.
E quando queste parole, nate in silenzio tra quattro mura, arrivano fino a noi, non possiamo più fingere di non averle ascoltate.
Mara Cozzoli
