
Estetica del potere. Quando l’arte incontra le mafie
L’arte e le mafie non si sfiorano per caso, né semplicemente si incrociano in superficie. Sono due forze che si confrontano in un terreno di tensione profonda, dove si intrecciano emblemi e poteri, memoria e dominio, creazione e sottrazione. Da un lato, l’arte si propone come custode di bellezza, memoria collettiva e resistenza; dall’altro, le mafie cercano di affermare il loro controllo attraverso occultamento, appropriazione e manipolazione. In mezzo c’è lo spazio — pubblico e condiviso — della cultura, spesso conteso, invaso o a volte liberato.
Le organizzazioni mafiose non si muovono ai margini della società, ma si insinuano nei suoi interstizi più nascosti. L’arte, in questo scenario complesso, può diventare al tempo stesso strumento di denuncia e oggetto di manipolazione. Può svelare la realtà, ma anche essere usata come facciata, come bene da monetizzare o veicolo di consenso. Questa ambivalenza la rende un campo di battaglia cruciale.
Non accade solo in Italia: le reti criminali internazionali — dai cartelli messicani ad alcuni network cinesi e russi — usano ormai l’arte come vettore globale di riciclaggio, in un mercato opaco dove la bellezza diventa complice.
Fin dalla metà del Novecento, la cultura italiana ha provato a dare voce a ciò che per troppo tempo era rimasto nel silenzio. Leonardo Sciascia, con forza civile, fu tra i primi a rompere il muro del silenzio con “Il giorno della civetta” (1961), rivelando i legami tra mafia, politica e ambiguità istituzionale. Il cinema, da Damiano Damiani a Marco Tullio Giordana con “I cento passi”, ha raccontato storie di resistenza, come quella di Peppino Impastato, ucciso per aver denunciato Cosa Nostra con la parola e la poesia.
Anche il teatro civile, con autori come Emma Dante e Mimmo Borrelli, ha dato voce a corpi e linguaggi feriti dal potere mafioso. E la street art, in molte città del Sud, ha trasformato muri e piazze in luoghi di memoria: da Ballarò a Scampia, da Librino a Brancaccio, i volti di Falcone, Borsellino, don Puglisi o Impastato sono diventati parte dell’alfabeto urbano. Non è mera estetica decorativa, ma militanza visiva.
Se l’arte denuncia, la mafia osserva e agisce. Uno degli ambiti più vulnerabili è il mercato dell’arte contemporanea, terreno fertile per operazioni di riciclaggio. La normativa è vaga, il valore delle opere è soggettivo, le transazioni sono spesso anonime e internazionali. In questa zona grigia le mafie hanno trovato un canale ideale per reintrodurre capitali illeciti — droga, estorsioni, contrabbando — attraverso l’acquisto di opere sovrastimate o l’utilizzo di gallerie e antiquari come fronti puliti. Come evidenziato da studiosi come Renata De Felice e dai rapporti della DIA, il valore dell’arte non è solo simbolico: è convertibile, spendibile e protetto.
A questo si aggiunge un fenomeno ancora più inquietante: il furto e il traffico illecito di opere d’arte. Le mafie italiane hanno costruito reti transnazionali di tombaroli, mediatori e galleristi compiacenti, capaci di esportare illegalmente migliaia di oggetti spesso venduti a musei o collezionisti ignari.
Un esempio paradigmatico emerso dalle indagini più recenti riguarda la famiglia di Matteo Messina Denaro, il superlatitante arrestato nel 2023. Lo stesso boss ha dichiarato come suo padre fosse coinvolto nel sistematico saccheggio del sito archeologico di Selinunte, una delle ferite più gravi inferte al patrimonio culturale siciliano. I reperti venivano immessi nel mercato internazionale attraverso la mediazione di Gianfranco Becchina, noto trafficante d’arte originario di Castelvetrano, con legami solidi con ambienti mafiosi. Tale sodalizio ha alimentato per decenni un commercio clandestino di reperti archeologici, successivamente venduti a collezionisti e musei esteri..
Un altro episodio simbolico, tra i più oscuri della storia del patrimonio artistico italiano, è il furto della “Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi” di Caravaggio, sottratta a Palermo nel 1969. Secondo diversi collaboratori di giustizia, l’opera sarebbe stata custodita — e forse distrutta — da Cosa Nostra. Un gesto che va oltre il valore economico: impadronirsi di un capolavoro significa esercitare controllo sulla memoria, sulla storia e sull’idea stessa di bellezza collettiva.
La camorra ha operato in questo ambito, con inchieste come “Gioconda” negli anni ’80 e ’90 che hanno smascherato traffici di opere rubate usate come garanzia per transazioni internazionali. La ’ndrangheta ha invece devastato il patrimonio archeologico calabrese, saccheggiando reperti della Magna Grecia poi rivenduti nel circuito antiquario europeo, come documentato dalle operazioni “Andromeda” e “Archeo”, spesso in collaborazione con Europol.
Talvolta si parla di mafie “collezioniste”, ma è una semplificazione fuorviante. Dai sequestri emerge un possesso sporadico e strumentale: quadri nascosti in bunker, icone religiose occultate in immobili abbandonati, reperti trattati come merce. Non c’è cura né fruizione. C’è solo funzione: l’opera d’arte come garanzia, moneta, trofeo. In certi casi, un atto di sfida allo Stato. Come se la bellezza stessa fosse presa in ostaggio.
La presenza mafiosa nel mondo culturale non si limita a riciclaggio e saccheggio, ma agisce anche sul piano della visibilità. In molti territori le mafie finanziano feste religiose, restauri, eventi pubblici. Non è beneficenza: è propaganda, marketing del consenso. Come ricostruito da Nando Dalla Chiesa nei suoi studi sull’egemonia culturale mafiosa, questa strategia serve a mimetizzare il dominio, a renderlo familiare e quasi legittimo. Il boss che dona i fuochi d’artificio, il clan che restaura la statua del santo: gesti antichi ma pericolosamente efficaci.
A tutto ciò si somma un ulteriore rischio: la narrazione mediatica che, pur animata da intenzioni critiche, finisce per generare fascinazione. È il paradosso di serie come Gomorra o Suburra, in cui la denuncia si mescola all’estetizzazione.
L’antieroe mafioso — spietato ma coerente, crudele ma leale — diventa un prodotto finzionale di successo. eppure, il pubblico, talvolta, finisce per identificarvisi.
Il pericolo è la sovraesposizione: mostrare troppo può contribuire a normalizzare.
In suddetta cornice, parlare di bellezza non è evasione è, al contrario, un atto di resistenza. Quando condivisa, costruita insieme, restituita ai luoghi e alle persone, la bellezza diventa forza politica. Hannah Arendt ci ha insegnato che il male agisce spesso come assenza di pensiero; la bellezza è invece pensiero che si fa forma, impone attenzione, costruisce responsabilità. Pasolini, in “Scritti corsari” e “Lettere luterane”, lo aveva intuito: la distruzione del paesaggio, l’omologazione culturale, l’anonimato urbano sono violenze, non semplici degradi.
Riportare bellezza nei luoghi segnati dalle mafie — un giardino su un terreno confiscato, un laboratorio teatrale in una scuola, un murale con i ragazzi del quartiere — è un gesto semplice ma radicale.
Non serve solo a decorare, bensì a restituire senso. È una forma di giustizia, cittadinanza attiva, pedagogia invisibile. L’arte può essere manipolata, ma può anche opporsi, disarmare, liberare.
Sta a noi decidere quale immaginario vogliamo costruire e in quale forma — linguistica, visiva, narrativa — vogliamo abitare. Perché ogni opera, se restituita alla comunità, può essere un atto di emancipazione. E ogni segno, se collocato nel luogo giusto, può diventare un argine. Anche contro la mafia.
Mara Cozzoli
