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Dentro l’occhio, il cielo. Al centro, l’ignoto

| Mara Cozzoli |

Visione, illusione e psiche in “The False Mirror” di René Magritte

Nel 1928, René Magritte realizza un’immagine tanto essenziale quanto perturbante: un organo della visione, monumentale e sospeso, che sembra scrutare chi lo osserva.
Ma a ben vedere, non siamo noi ad essere guardati: è il mondo a riflettersi nella sua superficie.
O chissà, la realtà si dissolve nell’apparenza.
L’iride si presenta come una distesa celeste, attraversato da nuvole bianche; la pupilla, invece, è una macchia nera, densa e al contempo vuota.
Con The False Mirror – Il falso specchio, l’artista formula già nel titolo un programma concettuale: lo sguardo, invece di limitarsi a riflettere passivamente la realtà oggettiva, diventa uno strumento critico che decostruisce e rielabora l’esperienza visiva attraverso i filtri della soggettività.
L’immagine si configura così come una meditazione sullo statuto della rappresentazione e sul ruolo attivo della mente nel processo percettivo.

In quest’opera, la vista non è solo un mezzo per conoscere il mondo: diventa simbolo della coscienza.
L’autore, pur estraneo alla psicologia accademica, intercetta un tema centrale del pensiero moderno: il vedere non è mai innocente.
Ciò che appare è già mediato, interpretato, contaminato da pensieri, memorie, sogni e paure che abitano l’interiorità.
La vastità azzurra che prende il posto dell’iride allude a uno spazio interiore, aperto e indefinito.
Ma la pupilla scura, impenetrabile, ci ricorda che al centro di ogni esperienza resta un punto cieco, un nucleo opaco. Un margine di mistero che la consapevolezza non potrà mai sondare completamente.
Forse è proprio questo il “falso” dello specchio: non inganna, ma non restituisce mai la totalità.

“The False Mirror” si colloca pienamente nel solco del Surrealismo, il movimento artistico e letterario nato negli anni ’20 sotto l’impulso di André Breton, con l’obiettivo di liberare l’immaginazione dai vincoli della logica, della razionalità e della morale borghese. L’artista fu una delle figure più poetiche e appartate di questo gruppo, spesso laterale rispetto all’estetica più spettacolare di Dalí o Ernst.
L’influenza della psicoanalisi freudiana sul Surrealismo fu profonda e dichiarata.
Freud spalancò le porte dell’inconscio, rivelando l’importanza di sogni, lapsus e immagini che sfuggono al controllo razionale.
I surrealisti, affascinati da queste teorie, tentarono di portare alla luce, attraverso le loro opere, ciò che si cela sotto la superficie della coscienza.
Il dipinto incarna esattamente questa tensione: un confine fluido tra conscio e inconscio, in cui percezione, sogno e immaginazione si mescolano.
Come spesso accade nei suoi lavori, l’apparente semplicità formale apre a riflessioni profonde.
Qui, la questione filosofica è chiara: che cosa vediamo, quando guardiamo? E fino a che punto possiamo fidarci dei nostri sensi?

Non sono offerte risposte né giudizi. Ma, con la consueta ambiguità visiva, veniamo invitati a interrogarci.
La vista, che dovrebbe essere strumento di verità, diventa emblema di ambivalenza. La superficie riflette il cielo – simbolo per eccellenza di libertà, apertura, possibilità – ma al centro cela un’oscurità impenetrabile.
È una visione poetica, ma anche profondamente inquieta: tra noi e il reale si frappone sempre un filtro, un velo che non possiamo sollevare del tutto.

A quasi un secolo dalla sua realizzazione, “The False Mirror” conserva intatta la sua forza perturbante.
È una raffigurazione che sembra pensare, o meglio: che ci obbliga a pensare.
Sul modo in cui costruiamo il visibile, su ciò che definiamo realtà, sul potere della mente nel dare forma a quanto crediamo di vedere.
In un’epoca dominata da rappresentazioni e stimoli visivi, Magritte ci invita – senza dichiararlo apertamente – a un diverso esercizio dello sguardo.

Le Faux Miroir, 1928
Olio su tella
54 x 80,9 cm
The Museum of Modern Art (MoMA), New York

Mara Cozzoli

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