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Che fine ha fatto il diritto internazionale?

“Il diritto internazionale non si applica agli ebrei. Questa è la differenza tra il popolo eletto e gli altri.”
Tali parole, tra le tante pronunciate dal ministro israeliano Bezalel Smotrich condensano, in poche frasi, una visione del mondo che posiziona un intero popolo al di sopra delle norme condivise dalla comunità internazionale.

Affermare che il diritto internazionale “non si applica” a un gruppo significa negare l’universalità stessa delle regole su cui si fonda la convivenza globale.
Si tratta di un’affermazione grave non solo per il contenuto letterale, ma per ciò che rivela: la volontà di legittimare una posizione di eccezionalità permanente.

Il riferimento al “popolo eletto” appartiene alla tradizione religiosa ebraica e, nel suo significato originario, non rimanda al privilegio.
Nella teologia, l’elezione è una chiamata etica: testimoniare giustizia e rettitudine. Quando questa nozione viene piegata alla logica politica, si trasforma in qualcos’altro, segnando così un passaggio da vocazione a strumento di dominio; da missione spirituale a giustificazione per derogare a direttive giuridiche.

A questo quadro si aggiunge un elemento inquietante nel discorso politico italiano. In seguito all’abbordaggio della Flottilla diretta a Gaza. Antonio Tajani, ospite di Bruno Vespa, ha affermato pubblicamente: «Il diritto è stato violato… ma il diritto è importante fino a un certo punto».
In modo lapidario, il ministro degli Esteri introduce un concetto altrettanto pericoloso: il diritto internazionale non è più un vincolo assoluto, ma una soglia oltre la quale subentrano valutazioni di mero calcolo.

L’accostamento tra la radicalità dell’affermazione di Smotrich e l’ambiguità pragmatica di Tajani merita attenzione. Da un lato, un ministro israeliano che rivendica apertamente una posizione “fuori legge” per motivi identitari. Dall’altro, un rappresentante del governo italiano che, pur non negando il diritto, ne relativizza la portata. In entrambi i casi, il messaggio sembra indicare la legge internazionale è subordinata alla volontà politica.

Il diritto nasce per evitare che l’arbitrio dell’uno prevarichi sull’altro.
Le esternazioni di entrambi, pur provenendo da contesti diversi, appaiono scivolare verso una concezione discrezionale della legalità internazionale: una visione in cui la politica — e non la norma condivisa — decide chi ne è vincolato e chi no.
È un terreno pericoloso: se il diritto diventa negoziabile, si indebolisce l’unico mezzo per contenere la forza e difendere i più vulnerabili.

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Mara Cozzoli

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