
“Sotto Pelle”: dare voce al dolore invisibile.
Entrare in contatto con il dolore invisibile non è mai semplice. Ci spaventa, ci mette a disagio, ci obbliga a guardare negli occhi fragilità che sovente preferiamo ignorare.
Eppure è lì, “sotto pelle”, che pulsa e chiede spazio, a ricordarci che la salute mentale non è un dettaglio, ma parte integrante del nostro benessere.
Con il progetto “Sotto Pelle”, che sarà ospitata negli spazi di ChiAmaMilano dal 10 al 27 ottobre in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale, un gruppo di giovani donne sceglie di raccontare la propria esperienza di sofferenza psicologica attraverso l’arte, trasformando il dolore in segno visibile, in testimonianza e in possibilità di incontro.
A curare il progetto è Alessia Spina che, oggi, racconta come nasce e dove vuole arrivare questa scelta di coraggio e di condivisione.
“Sotto Pelle” è un titolo potente e diretto. Come nasce l’idea di questa iniziativa?
L’idea nasce come esigenza, attraverso il guizzo creativo di un gruppo di ragazze che si sono incontrate in un contesto psichiatrico. Anna Ongaro, Anna Agnese Sini, Marta Ferracioli, Giorgia Gaccione, Roxana Popa hanno sentito il bisogno di confrontarsi riguardo ai propri vissuti dolorosi attraverso una comunicazione diretta e senza fronzoli, rispetto quella cui siamo esposti tutti i giorni per opera di edulcorazioni e patinature. Nello specifico, hanno preferito il linguaggio artistico e autentico, spesso non verbale, al linguaggio tecnico-descrittivo, verbale, difensivo e razionalizzante.
“Sotto Pelle”, appunto, oltre la superficie della pelle, dentro, in profondità, oltre apparenze, giudizi, schemi, finzioni, convenzioni. Eppure, a contatto con la pelle, confine poroso tra dentro e fuori, in continua contaminazione tra sé e altro, relazione e ambiente.
Quando mi hanno chiesto di aiutarle a dare forma all’iniziativa, organizzando un’esposizione in cui sarebbero stati inseriti anche alcuni dei miei scatti fotografici, mi sono sentita onorata. Ho creduto immediatamente nella potenzialità del progetto, anche per via della mia formazione in psicologia clinica e per l’importanza che ho riconosciuto a primo colpo d’occhio nei temi trattati, che si incontrano nel fil rouge di un attento e coinvolgente focus sul dolore e sulle sue sfaccettature in ambito psicologico e psichiatrico.
Il dolore fisico lo riconosciamo, lo vediamo, lo nominiamo senza vergogna, lo giustifichiamo. Il dolore psicologico no, lo evitiamo. Eppure, è sottile e si insinua tra le pieghe dell’anima e si nasconde tra le crepe del quotidiano, per quanto fatichiamo a riconoscerlo e legittimarlo. In realtà, oltretutto, dolore fisico e psichico camminano spesso insieme ma, ignari o volutamente tali, cadiamo nell’errore di Cartesio, scindendo continuamente mente e corpo, cuore e cervello.

Entriamo nel merito della sua articolazione e strutturazione.
“Siamo diverse ma unite da un’esperienza comune: viviamo e affrontiamo la sofferenza psicologica e abbiamo deciso di non restare in silenzio. Vogliamo parlare, gridare, raccontare al mondo che cosa significa vivere questa sofferenza”. È con questo forte messaggio che il progetto ha assunto la sua connotazione.
A livello strutturale si compone di dipinti, disegni, poesie, pagine di diario e fotografie. Il materiale si articola in una narrazione che alterna forme e contenuti diversi, a testimonianza del carattere poliedrico del progetto. Saranno esposte anche alcune opere di Oliviero Passera, noto artista che ha deciso di supportare il progetto mettendo a disposizione alcune sue rappresentazioni della grande Alda Merini.
I disturbi psicologici e psichiatrici sono una realtà tangibile, diffusa e pervasiva, eppure ancora oggi trattata come un tabù.Non se ne parla abbastanza, non se ne parla con il giusto tono. Chi ne soffre spesso si sente solo, abbandonato, invisibile, giudicato. Ma se c’è qualcuno che può spezzare questo silenzio, sono proprio le persone che convivono ogni giorno con tale realtà.
Questo è il cuore della struttura, che si esprime nelle diverse funzioni assegnate alle varie forme artistiche che lo compongono.

Arte e salute mentale: due mondi che si toccano. In “Sotto Pelle” l’arte diventa strumento di racconto e di resistenza.
Come avete lavorato su questa trasformazione del dolore in linguaggio artistico?
Arte e salute mentale non possono che andare a braccetto, sostenendosi a vicenda in maniera bidirezionale. L’arte è un affidabile tramite per l’espressione di sé. Una lente di ingrandimento sulle nostre luci ma, soprattutto, sulle nostre ombre, su ciò che non riusciamo ad accogliere. L’arte, in un certo senso, è anche proiezione, un’attività che aiuta a portare fuori contenuti intollerabili o, per l’appunto, invisibili. È una liberazione, ma è anche rivelazione di aspetti inesplorati di sé e di vissuti rimossi.
L’arte racconta, libera, rivela, cura. La salute mentale, di conseguenza, può riconquistarsi attraverso l’arte grazie al suo potere terapeutico.
Come può, dunque, essere lontana dalla salute mentale?
Il dolore prende forma. Diventa disegno, dipinto, poesia, pagina di diario, fotografia. Ecco, così si trasforma, perdendo la sua pelle “invisibile”. Quando il dolore è fuori non pesa più come quando è solo dentro e, soprattutto, quando è fuori possiamo riconoscerlo, accoglierlo, abbracciarlo, ascoltarlo. Cos’ha da dirci? Perché è arrivato? Il linguaggio artistico traduce la parola del dolore e la restituisce risignificata. Non più solo dolore, ma anche vissuto, parte di sé, cambiamento, evoluzione. Divenire. Il dolore ha il coraggio di mostrarsi attraverso il linguaggio artistico. Si fa portavoce e diventa messaggio per gli altri, si veste di condivisione, tassello fondamentale per il benessere umano, un benessere inevitabilmente relazionale.

“Siamo molto di più delle nostre diagnosi”.
È una frase che suona come una dichiarazione di identità.
Cosa significa, concretamente, andare oltre l’etichetta della malattia?
Le etichette sono solo delle etichette. Servono a facilitare la comunicazione tra professionisti della salute ma non dicono niente della persona e, come sappiamo, in psicologia e in psichiatria lavoriamo con le persone, con la loro narrazione e con il loro essere soggetti in relazione. Con la loro soggettività, appunto. Le etichette oggettivizzano, semplificano, riducono ed espongono al rischio di bias cognitivi e di valutazione. Ovviamente, sono necessarie per via di un passaggio di informazioni veloce tra esperti, ma se non vengono associate al resto di cui sopra sono solo vuote definizioni che deviano, anziché indirizzare correttamente. I professionisti della salute mentale lavorano con l’ascolto attivo ed empatico, mettendo da parte il giudizio, che è spesso il risultato di un’etichetta decontestualizzata. Chi è la persona che ci porta la sofferenza? Qual è la sua storia? Quali i suoi meccanismi di difesa? Come ci risuonano le sue parole? Queste le domande da porsi e non: “che disturbo ha?” o “sotto quale categoria diagnostica si colloca?”.
La psicopatologia non ci dice di una disfunzionalità, ma di strategie che il soggetto ha trovato per stare in piedi, per sopravvivere nel suo ambiente. Quindi non è qualcosa di disfunzionale ma, paradossalmente, qualcosa di funzionale.
Ecco perché suona come una dichiarazione di identità. Perché andare oltre l’etichetta della malattia vuol dire incontrare la persona, in tutta la sua complessità.
Il dolore psicologico sembra venire rimosso dal dibattito pubblico, nonostante la Giornata Mondiale della Salute Mentale sia stata istituita proprio per riflettere sul fatto che, nel momento in cui crolla la psiche, viene meno un sistema.
Viviamo in una società patofobica, che vuole eliminare a tutti i costi il “negativo”, che esalta la linea riparativa su modello medico, che vuole semplificare, mettere in ordine e disporre la vita dell’altro, non aiutarlo a prenderla in mano. Dove il soffrire equivale al fallire e al perdere, quando la sofferenza è invece mediazione di vita. Questo non vuol dire che siamo nati per soffrire ma che la sofferenza, se accolta, è un processo evolutivo, che apre a nuove possibilità.
Inoltre, proprio per via di quanto dicevo prima, c’è molto stigma nei confronti della salute mentale. Possiamo andare dal medico di base se abbiamo un minimo dolore fisico ma non possiamo andare dallo psicologo o dallo psicoterapeuta perché altrimenti siamo “pazzi”. Mostratemi un uomo sano di mente e lo curerò per voi, diceva Carl Jung. La differenza tra normalità e psicopatologia non è netta, ma piuttosto una questione di grado. I sintomi psicopatologici possono essere considerati come varianti estreme nel grado di emozioni e comportamenti normali, collocati lungo un continuum che va da lieve a grave. Questo concetto, alla base della diagnosi psichiatrica, suggerisce che la psicopatologia non è un mondo a sé stante, ma piuttosto un’estensione o una variazione di esperienze umane comuni, con differenze principalmente di intensità, frequenza e impatto sulla vita dell’individuo.
Come dice Arnaldo Ballerini: “…Si è fatta strada una certa consapevolezza di quanto possa essere tenue la barriera, che ognuno che si considera “sano di mente” vorrebbe invece solidissima, fra normalità e anormalità psichica, di quanto sia poco afferrabile il concetto di “norma” in psichiatria e di come esso possa dipendere anche da variabili ambientali e culturali, e infine di come in ognuno di noi esistano istanze semisconosciute, sconosciute o negate, di schietto carattere irrazionale…”
Spero di aver, implicitamente, risposto…
Nella sfera psichica il termine “guarigione” è estremamente complesso.
A suo avviso, quale definizione e senso possiamo attribuirvi?
Rammentiamo che non stiamo parlando di un raffreddore o della frattura di un arto.
L’individualismo e la società della performance che caratterizza il nostro momento storico ci sussurrano costantemente e violentemente all’orecchio: “non sei mai arrivato!”. Questo tendere continuo è motivo principale del malessere attuale, dato da una insidiosa pressione culturale sul successo. Per tale motivo siamo sempre meno accompagnati verso la consapevolezza di ciò che siamo, mentre siamo invece spinti verso ciò che siamo agli occhi degli altri. Allo stesso tempo, il concetto di guarigione psichica assume forme diaboliche che ricalcano il modello medico, come accennavo prima: “stai male, ti aggiusto!”, “non sai chi sei? Te lo dico io!”. Guarire nella sfera psichica è invece un processo che richiede tempo e che necessita dell’ardua abilità di imparare a stare nel dolore, nelle emozioni, nei sentimenti “negativi”. Non evitarli, non rifuggirne, non aggiustarli. È esattamente l’opposto… altrimenti abbiamo fatto finta di guarire. Siamo talmente disabituati a questa “fetta di vita”, schiavi della cultura positivista e positiva a tutti i costi, che ci siamo dimenticati che il “negativo” è funzionale e indispensabile alla conoscenza di sé. Come facciamo a sapere cosa vogliamo davvero se non ci ascoltiamo mai nella tristezza? Questo è solo un esempio. Spero di aver passato il concetto.
Se dovesse scegliere un messaggio da lasciare al pubblico che visiterà “Sotto Pelle”, quale sarebbe?
Lasciatevi andare. Non aggiungerei altro… a buon intenditore, poche parole.
Guardando al futuro: pensa che questo progetto possa diventare un format replicabile, un percorso itinerante, o resta un’esperienza unica e legata a questo preciso momento?
Questo progetto avrà un seguito e si vestirà di nuove possibilità, nel rispetto del fulcro dell’iniziativa: il dolore, un motore che trasforma e porta a cambiare pelle… sotto, dentro, nel cuore e nel tempo.

Mara Cozzoli
