
Matteo Salvini e la misura smarrita del linguaggio politico
Egregio Ministro Matteo Salvini,
Le scrivo perché le Sue dichiarazioni rilasciate all’emittente israeliana i24NEWS non possono restare senza risposta.
Ogni parola pronunciata da chi ricopre incarichi istituzionali non è mai soltanto opinione personale: diventa segno, indirizzo, rappresentazione di un Paese.
E quando il linguaggio si riduce a slogan, perde la sua funzione più nobile: illuminare, aprire al dialogo, creare ponti di comprensione.
Lei sa bene, o dovrebbe sapere, che le parole non sono bastoni. Sono strumenti delicati, capaci di dare forma al senso o di distruggerlo.
Eppure, nell’intervista, ha scelto di usarle come armi di contrapposizione, liquidando ogni divergenza e descrivendo chi scende in piazza come ignaro, inconsapevole, quasi privo di coscienza critica.
Così facendo, ha tolto dignità intellettuale a chi si mobilita, riducendo a rumore indistinto ciò che invece, spesso, è espressione di valori morali, sensibilità etica, empatia verso la sofferenza di civili innocenti.
«Molta di questa gente che sta protestando e sta bloccando le strade, interrompendo le lezioni nell’università, non penso che sappia per cosa lo sta facendo perché l’estremismo islamico è il principale problema al mondo». Così ha dichiarato, con una sicurezza che stride con la realtà dei fatti.
Richiamare l’estremismo islamico in simili circostanze significa portare il discorso su un terreno che non ha alcuna attinenza con la questione di Gaza.
Così il dibattito scivola dalla drammaticità degli eventi a un piano secondario, dove ogni interrogativo sul diritto e sulla giustizia rischia di essere neutralizzato. Parlare di fondamentalismo, in simili circostanze, non chiarisce: confonde.
Le iniziative cittadine non chiedono di ridefinire le gerarchie delle minacce globali, né tantomeno negano il pericolo dell’integralismo. Esse pongono una domanda precisa: come si possa giustificare la devastazione di un popolo, la distruzione sistematica di vite innocenti, la cancellazione di intere comunità sotto il peso delle bombe.
È doveroso che ogni iniziativa cittadina si dissoci nettamente dal genocidio, ormai riconosciuto non solo da voci della società civile ma anche da una Commissione indipendente delle Nazioni Unite. Non un termine abusato, dunque, ma una qualificazione fondata, supportata da prove documentali e da parametri universalmente condivisi.
Le richieste delle piazze non sono vaghe: cessate il fuoco immediato, accesso umanitario libero, sospensione dell’invio di armi, riconoscimento dello Stato palestinese, fine del blocco di Gaza. Sono richieste concrete, radicate in un’urgenza etica.
Prendere le distanze da un crimine di tale portata non è un’opzione: è un atto di giustizia e di responsabilità.
«Avete diritto a difendervi», ha affermato. Ed è vero: il diritto alla difesa è principio inviolabile. Ma la difesa, per essere legittima, deve essere proporzionata all’offesa. Una difesa sproporzionata si trasforma in sopraffazione, perde la sua legittimità e diventa violenza a sua volta. Non è un dettaglio, ma il cuore del diritto internazionale, e soprattutto un principio etico universale. Ricordarlo non significa negare il diritto all’autotutela, bensì riaffermare che la dignità umana resta il limite invalicabile di ogni azione politica e militare.
Ancora più grave è stata la Sua affermazione secondo cui l’ONU “vale come alcune istituzioni europee che sono contro Israele per principio e sono complici di un antisemitismo dilagante”.
Screditare organismi internazionali con accuse tanto generiche significa indebolire le stesse sedi che consentono all’Italia di far sentire la propria voce nel mondo, di negoziare, di difendere i propri interessi nel quadro del diritto. Criticare specifiche risoluzioni o singole scelte è legittimo; delegittimare l’intero impianto istituzionale equivale invece a scardinare il tessuto di responsabilità e regole comuni su cui si regge la convivenza internazionale.
Egregio Ministro, ciò che colpisce nelle Sue parole è la leggerezza con cui ha preferito la retorica alla riflessione, la tifoseria al dovere istituzionale, l’enfasi alla sobrietà. La politica, al contrario, dovrebbe avere il coraggio di nominare l’ingiustizia ovunque si manifesti, senza timore di incrinare alleanze o perdere consenso.
Poiché i discorsi hanno memoria, e ciò che oggi si tende a minimizzare, domani sarà giudicato dalla Storia.
Se chi rappresenta l’Italia riduce le mobilitazioni a inconsapevolezza, invoca una difesa senza misura e scredita istituzioni come l’ONU, non sta soltanto offendendo le vittime: sta minando l’autorevolezza del nostro Paese.
Con rispetto, ma con fermezza.
Mara Cozzoli
