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Annullare Gergiev: un gesto contro la complessità culturale?

Che Gergiev sia putiniano è un dato di fatto.
Lo ha dimostrato apertamente, senza remore, sostenendo un potere che l’Occidente condanna — giustamente — per guerra, repressione e autoritarismo.
Vietargli l’esecuzione prevista per il 27 luglio, alla Reggia di Caserta, rappresenta un passo discutibile.
Il programma previsto comprendeva due capolavori: la Quinta Sinfonia di Čajkovskij e il Bolero di Ravel — musica, non ideologia.

Ciò che ritengo allarmante non è il giudizio — che, peraltro, condivido — sull’individuo, fautore convinto di un criminale qual è Putin, ma il riflesso meccanico con cui lo si immerge nel mutismo.

L’arte non è un’appendice del notiziario, e la personalità in questione non è un funzionario di Stato pronto a raggiungere l’Italia per tenere una conferenza sul suo amico autocrate, sebbene egli —  questo va ricordato — ­­ abbia rappresentato la Russia anche in occasioni militari, come nel celebre concerto a Tskhinvali del 2008, pochi giorni dopo l’intervento armato in Georgia.
È un direttore d’orchestra, a capo del Bolshoi di Mosca e del Mariinsky di San Pietroburgo, oltre a essere uno dei massimi protagonisti del panorama sinfonico mondiale.

Insomma, parliamo di un uomo che, per quanto convinto aderente a idee politicamente aberranti, sul podio è stato — ed è — un interprete di rango assoluto.
Negargli la scena in un luogo-simbolo della bellezza italiana come la Reggia non è un atto di resistenza: è un gesto di rimozione che, in cultura, è sempre una forma di censura.
Morbida, elegante, ipocrita — ma censura resta.

Che cosa si pensava di ottenere impedendogli di dirigere?
Che si sarebbe convertito all’europeismo? Che avrebbe rinnegato Putin in diretta streaming?
No: si genera solo un buio. E quel vuoto non è riflessione, ma sterilità.

Restano però domande legittime che continuano ad assillarmi: Avrebbe potuto servirsi dell’arte come veicolo di propaganda anche in Italia?  
Quanto l’uomo, la politica e l’arte sono comunque intimamente connesse?
Interrogativi che non vanno elusi.
L’arte, per sua natura, sfugge al controllo ideologico se lasciata libera di esprimersi.
E il confine tra espressione artistica e strumentalizzazione è sottile, ma si coglie nel momento dell’ascolto, non nella quiete forzata.

La pratica artistica non si piega ai dogmi, nemmeno a quelli giusti. Trova invece senso nella complessità.
E allora, scatta un ulteriore pensiero: se prendiamo questa strada, se essa deve rispondere al tribunale della moralità politica, dovremmo avere il coraggio di andare fino in fondo.

Togliere dai cartelloni Wagner, antisemita feroce, precursore e propugnatore delle tesi razziste ancor prima che Hitler ne facesse un’icona.
Escludiamo Ezra Pound, che nel Ventennio faceva propaganda fascista dai microfoni della radio.
Chiudiamo i corsi universitari su Heidegger, iscritto al partito nazista e mai realmente pentito.
Blindiamo lo studio di Gabriele D’Annunzio a scuola e cancelliamo il Movimento Futurista.
Estromettiamo Giuseppe Ungaretti massimo esponente dell’ermetismo poetico poiché —agire comune per quei tempi—  aderì al partito fascista.

Forza, scomunichiamo anche Pasolini: troppo contraddittorio, disallineato, comunista e impossibile da addomesticare.
In ultimo, bandiamo Louis-Ferdinand Céline   — il cui genio stilistico e la capacità di catturare ansie e contraddizioni del XX secolo sono indiscutibili  —  dal momento che, opere come “Bagatelle per un massacro” e “La scuola dei cadaveri”, risultano impregnate di nazionalismo.

Perché li cito?
Ognuno di loro, in modo diverso, è stato “intellettualmente impuro”.
Essi hanno espresso idee, atti, appartenenze che in questa fase storica risulterebbero intollerabili.
Ma sono rimasti — correttamente — al centro del nostro canone culturale.
Non perché li “perdoniamo”, ma perché pensare significa anche attraversare il disagio, la contraddizione, l’errore.
Epurare il patrimonio da ciò che ci urta è un’illusione puerile, in quanto la grandezza estetica non è un premio etico.

Alla Reggia di Caserta è stata interdetta la musica: si è deciso di sacrificare l’armonia a una postura politica che non piace a nessuno, me compresa.
Silenziare Gergiev non è un atto di giustizia: è un cedimento, una forma di controllo mascherata da coscienza che svuota il dibattito, spegne l’osservazione e impoverisce il sapere.

Il risultato?
Una scena intellettuale che non illumina.
Una manifestazione artistica che non pone domande, ma ribadisce risposte preconfezionate.
Non è così che si difende la democrazia — in tal modo, invece, la si priva di contenuto.

Siamo un Paese dai contorni paradossali: optiamo per l’annullamento di un concerto, ma non di una partita di qualificazione ai Mondiali — Italia-Israele per essere precisi— in programma il prossimo ottobre a Udine, nonostante sia in corso il genocidio del popolo palestinese ad opera dello Stato ebraico.
Due ambiti diversi, due situazioni distinte. Eppure, proprio per questo, la considerazione dovrebbe essere più profonda e sincera.


Articolo presente anche su OP- Osservatore Politico

Mara Cozzoli

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