
“I fiori del male”. Il lato oscuro delle donne nell’opera di Cristina Sirizzotti
“Non siamo solo ciò che mostriamo. Siamo anche ciò che tratteniamo, ciò che ci divora da dentro.”
Cristina Sirizzotti dipinge ciò che molte donne sentono ma non osano dire: la vertigine del proprio abisso interiore.
Le sue opere non illustrano ma evocano, non raccontano ma scavano.
Sono visioni che affiorano da uno stato mentale profondo, come se l’inconscio prendesse corpo, carne e colore.
Ogni quadro è un frammento di una mitologia personale e universale al tempo stesso, in cui la donna si fa figura tragica, ambigua, potentemente viva eppure spettrale.
Nel suo lavoro, l’artista infrange l’immagine convenzionale della donna angelicata, rasserenante, madre o musa.
Al suo posto, ci troviamo di fronte a presenze che sanguinano, urlano, si dissolvono o si trasformano in elementi della natura: creature ferine, martiri sensuali, dee della rovina.
Donne che si contorcono nell’impossibilità di essere una sola cosa, abitate da conflitti irrisolti, da desideri furiosi, da memorie che bruciano sotto pelle.

Nel dipinto “Lilith”, l’icona femminile si fa totem oscuro, rigido come una condanna, immerso in fiamme interiori.
Lilith è la donna che rifiuta la sottomissione, colei che incarna la ribellione primordiale e un’autonomia pericolosa.
Il suo volto è impenetrabile, la pelle pallida contro un fondo che pare vomitare fuoco e colpa.
È l’icona di un tormento ancestrale, ma anche una figura di potere: una che arde, ma non si consuma.
“La Batterista” è l’esplosione ritmica di un corpo che urla, vibra, lotta con il proprio confine.
Il battito non è solo musicale: è esistenziale. È il cuore che non sa se ama o odia, che pulsa per la rabbia, il desiderio, la paura.

In “Danza Macabra”, la morte diventa seduzione e consunzione.
I corpi sono schegge di memoria, marionette di un destino già scritto.
Fantasmi dal tessuto dolente.
E poi ci sono dipinti in cui materia e identità si fondono.
“Selva dei suicidi” è un’apparizione in cui materia e identità si fondono in modo irreversibile.
La protagonista si radica nell’albero, o forse è l’albero stesso. La creatura spezzata ha trovato rifugio nella natura, ma non vi ha trovato pace. I volti emergono come lamenti dal legno, testimoni muti di un dolore eternato.
Qui il paesaggio non è sfondo, ma specchio emotivo: un organismo vivente che riflette il trauma.

“Salem”, infine, è combustione che diventa catarsi.
La figura si erge dal fuoco, martoriata ma invincibile. La fiamma non la divora: la trasfigura.
Salem non è solo una strega arsa, ma l’immagine di una donna che ha attraversato la persecuzione e ne è uscita in una forma nuova — più crudele, più libera, più vera.

Cristina Sirizzotti non fa pittura figurativa in senso classico. Le sue opere sono riti visivi, invocazioni, confessioni.
La tecnica è densa, simbolica, a tratti visionaria: tratti umani escono dal buio come sogni febbrili; corpi si dissolvono o si fondono con la materia; la natura stessa — radici, fiamme, rami — diventa parte dell’identità.
I colori sono magma e ferita, le forme suggeriscono più di quanto mostrano.
Non c’è mai una sola interpretazione, perché le immagini parlano un linguaggio onirico, instabile, profondamente umano.

“I fiori del male” richiamano la bellezza che nasce dal dolore, la sensualità del tormento, la poesia che germoglia dall’ombra.
E queste donne, queste creature, queste presenze dipinte, sono fiori velenosi che sbocciano nella psiche di chi guarda.
Non chiedono di essere amate. Chiedono di essere viste.
E forse, di essere riconosciute.
Immagine in evidenza
La maschera dell’eterno conflitto
vernice a rullo e pennello
100×100 cm
2025
Mara Cozzoli
