venerdì, Aprile 19, 2024
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A Milano nasce IRIS, il primo sportello dedicato alla comunità LGBTQI+. Intervista a Chiara Sainaghi, responsabile centro antiviolenza Fondazione Somaschi.

Violenza e discriminazione sono fenomeni trasversali che possono verificarsi nell’ambito di qualsiasi relazione intima o contesto di vita (lavorativo, scolastico, sociale), coinvolgendo anche persone appartenenti a generi e orientamenti sessuali diversi.
Far emergere soprusi in questi casi, però, è ancora più difficile: spesso il senso di solitudine e di vergogna è molto forte e le persone coinvolte non sanno a chi rivolgersi per chiedere aiuto.
Per questo a Milano, dall’impegno di Fondazione Somaschi e Fondazione LILA (Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids), e grazie al sostegno dell’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), è nato IRIS, il primo sportello contro le discriminazioni e la violenza LGBTQI+.
Dialogo, oggi, con Chiara Sainaghi, responsabile centro antiviolenza Fondazione Somaschi.

Innanzi tutto, raccontiamo sommariamente l’attività svolta da Fondazione Somaschi.

Fondazione Somaschi è un’organizzazione che opera in diversi territori italiani tra cui Lombardia, Piemonte, Sardegna e Liguria.
Nella nostra Regione, la Lombardia, in particolare, svolgiamo attività rivolte a fasce di popolazione in condizione di fragilità, legate, quindi, all’accoglienza di minori, donne sole e con figli, donne vittime di violenza, ma anche vittime dello sfruttamento della prostituzione.
Ci occupiamo, inoltre, di attività di prevenzione all’interno di scuole e mondo giovanile, una prevenzione sempre rivolta alla violenza di genere e devianze.
Sempre rispetto al nostro ruolo di contrasto alla violenza, nel tempo, sono stati elaborati ulteriori strumenti: accoglienza e protezione di donne in case rifugio e centro antiviolenza, negli ultimi anni, abbiamo, inoltre, strutturato interventi mirati al trattamento di uomini autori di violenza e, da ultimo, uno sportello dedicato a chi appartiene alla comunità LGBTQI+ e subisce violenze nelle relazioni intime.

Partendo proprio dalle comunità LGBTQI+, entriamo nel merito di progetto Iris, sportello aperto da poco tempo, soffermandoci sul motivo per cui siete giunti a recepire questa necessità di  darvi vita.

Esatto, lo sportello ha avuto il suo avvio ufficiale lo scorso aprile ed è un progetto che nasce dalla collaborazione con Fondazione LiLa.
Come centro antiviolenza, diverse volte, ci è capitato di ricevere richieste d’aiuto da parte di persone che vivono una relazione violenta, non eterosessuale bensì omosessuale o tra persone trasgender. Incontrando queste persone, abbiamo colto la fatica che hanno fatto nel chiedere supporto e trovare un luogo che le accompagnasse in un percorso d’aiuto individualizzato.
Nasce, in tal modo, la nostra volontà di dare risposta all’esigenza di poter offrire un contesto identificato, dove la persona che appartiene a quella comunità si possa sentire tranquilla e libera nel chiedere aiuto.
Per le persone che vivono una relazione violenta non eterosessuale, dichiarare il loro stato di vittima implica il superamento di una doppia discriminazione. Facilitare l’accesso all’aiuto è alla base dell’avvio di questo sportello.

In quali condizioni psico-fisiche queste persone di presentano a voi?

Le persone che abbiamo incontrato ci hanno riportato, sempre, una condizione di grossa sofferenza a livello psicologico legata alla violenza che stanno subendo.
Un po’ come ci raccontano le donne che accedono ai nostri centri antiviolenza, sono presenti fatica, senso di colpa, vergogna.
Vi è una situazione, dunque, di fragilità personale come esito di continue vessazioni, svalutazioni e controlli da parte del partner, che conducono, oltretutto, a stati di sofferenza, vulnerabilità e confusione.
Il fatto di subire continuamente determinate condotte da parte dell’individuo che si è scelto come compagno, con dinamiche che, ciclicamente, hanno delle fasi con momenti in cui tali pressioni sono forti, in alternanza ad altri in cui la relazione appare essere positiva, genera, nel tempo, un forte disorientamento e insicurezza.
In alcuni casi, le persone accolte, sono giunte a noi dopo episodi di violenza fisica, quindi, quando l’aggravarsi della violenza  subita  ha portato, anche, al manifestarsi di aggressioni.
Nelle nostre casistiche, abbiamo avuto più forme di violenza fisica tra coppie transgender che omosessuali.

Come se lo spiega?

La premessa è che non abbiamo una casista così ampia che ci permetta di fare un ragionamento generale sulle motivazioni.
Un aspetto può essere dovuto al fatto che le persone transgender che abbiamo incontrato, in buona parte, ci hanno conosciuto attraverso i nostri servizi di bassa soglia, quelli cioè che vanno a creare un aggancio con soggetti che lavorano sulla strada e che sono vittime dello sfruttamento della prostituzione.
Stiamo, quindi, parlando di un ambito in cui la violenza fisica si manifesta quotidianamente, assumendo il carattere della normalità.

Quale tipo di assistenza offrite?

Noi forniamo uno spazio di ascolto e accoglienza in cui la persona si possa sentire a proprio agio e non giudicata, al fine di poter sviluppare una relazione di fiducia con l’operatrice. L’aspetto fondamentale è costruire un percorso rispettoso di quanto la persona che ci chiede aiuto e che è la protagonista principale, ritiene giusto per sè in quel momento.
Forniamo assistenza psicologica per chi ritiene di averne bisogno e assistenza legale. Vi è, inoltre, una parte legata all’orientamento lavorativo.

Su questo punto vorrei soffermarmi. Voi siete sul campo, quindi, le chiedo: è possibile che talento e competenze passino in secondo piano rispetto all’orientamento sessuale? Esiste ancora questo tipo di discriminazione?

Questo è un aspetto molto importante sul quale teniamo alta l’attenzione.
Il problema dell’anti-discriminazione è curato da Fondazione LILA, data la maggior esperienza e professionalità in merito.
Le persone accedono a noi perché vivono violenza nell’ambito della loro relazione affettiva, ma che nella loro storia hanno anche un trascorso che nel presente genera sofferenza in riferimento alla discriminazione, all’accettazione da parte del loro nucleo familiare e delle fatiche legate alla difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro.


Come impostate i programmi di orientamento lavorativo?

L’attività di orientamento avviene, innanzi tutto tramite operatori che, internamente al progetto, accompagnano il processo di bilancio delle competenze, ridefinizione del CV e fanno da tramite con agenzie del lavoro.
In parallelo, affiancano le persone perché acquisiscano competenze per una ricerca attiva del lavoro, mirata.
A volte è necessaria una mediazione con i servizi preposti all’inserimento lavorativo sul territorio e un coaching che consenta alla persona di mettere a frutto le proprie capacità non solo nella ricerca del lavoro, ma anche nel suo svolgimento.

Quanto mettete in atto, se ho ben capito, costituisce una sorta di inserimento sociale.

Sì, cerchiamo di creare le condizioni, affinché le persone, se non lo sono già, possano costruirsi una dimensione di vita autonoma. Per esempio, quando si trovano all’interno di una relazione violenta e non hanno autonomia economica, lasciare il partner significherebbe trovarsi in stato di bisogno. In questi casi ancora di più è necessario costruire le giuste condizioni di partenza perché la persona possa sganciarsi, nel momento in cui lo decide, da quel tipo di rapporto.

In situazioni di emergenza, sono pronti anche rifugi d’accoglienza. Quali sono le tipologie di emergenza e quali sono le modalità d’accesso?

Può capitare, così come capita per le donne vittime di violenza, che la persona si trovi ad elevato rischio per la sua incolumità fisica e non abbia altre reti di supporto o la possibilità economica di sottrarsi da quella situazione.
Lo sportello consente di valutare i rischi e le risorse possibili da attivare. Quando la situazione lo richiede si cerca una struttura che, temporaneamente, possa ospitare e supportare la persona in un percorso di fuoriuscita dalla violenza.
In questo momento il discorso protezione LGBTQI+ è un sistema in fieri, perché non è ancora presente una cultura e un’attenzione specifica a questo tipo di percorsi. È un aspetto che rientra in questa sperimentazione, che stiamo portando avanti attraverso la costruzione di una filiera che consenta passaggi più lineari, anche di ospitalità, per chi si trova in situazioni che la richiedono. Stiamo lavorando molto sulla connessione con altri enti che si occupano a diverso titolo di dare supporto agli appartenenti a questa comunità.
Fondazione Somaschi dispone di appartamenti d’accoglienza in cui ospita anche persone transgender vittime di violenza e sfruttamento. Il discorso ruota intorno ai finanziamenti. Il sostegno dei percorsi in cui è necessaria l’ospitalità risultano onerosi.

A livello istituzionale, Regione Lombardia, come si sta muovendo per meglio supportarvi?


Diciamo che Regione Lombardia non ha ancora in agenda questo tema, però stiamo lavorando con fondi ministeriali ed europei. Noi siamo all’interno della rete anti-violenza del comune di Milano e non solo, e stiamo portando ovunque l’attenzione su questo tipo di situazione, per darle evidenza e farla emergere. L’auspicio è che nel tempo possa essere attenzionata ed entrare in un sistema che la supporti anche economicamente.

In che modo questi stati di solitudine e discriminazione incidono poi sulla componente psichica? Insomma, queste situazioni hanno delle conseguenze.

In generale, le persone che appartengono a una minoranza, portano già con sé delle fatiche, a cui si aggiunge la fatica di riconoscere se stessi e di farsi riconoscere con una propria identità che non è uniforme alla maggioranza. Dal punto di vista psichico questa difficoltà genera una confusione piuttosto impegnativa. Quando poi si aggiunge la violenza lo stress è ancora più forte.

Qual è il miglior approccio in questi casi?

Un approccio efficace ha come base di partenza la comprensione e la consapevolezza delle caratteristiche di chi si sta incontrando, di questa doppia fatica, avere in mente quelli che possono essere i vissuti. Solo da un ascolto attento può nascere un percorso di supporto personalizzato, unico per quella persona. Tutto parte da qui.

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