sabato, Luglio 27, 2024
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Autolesionismo in fase adolescenziale. Intervista alle dottoresse Marta Ostinelli e Giulia Cattarini.

L’autolesionismo non suicidario o NSSI è un fenomeno caratterizzato dalla volontà di procurarsi danni fisici che, a loro volta, generano lividi, bruciature,  sanguinamento e, conseguentemente, dolore.
Una tale pratica, in realtà, nasconde una sofferenza psicologica estremamente radicata in profondità.
Approfondisco, oggi, l’argomento, accompagnata da Marta Ostinelli, psicologa e psicoterapeuta familiare-individuale e Giulia Cattarini, psicologa psicoterapeuta cognitivo costruttivista relazionale, entrambe collaboratrici presso l’ambulatorio Plinio di Tavernerio di Fondazione Rosa dei Venti onlus, centro di psicologia integrata e terapie naturali, che propone percorsi personalizzati presso la sua sede di Villa Plinia e possibilità di presa in carico del disagio psicologico anche in modalità online, dall’intero territorio nazionale.

NSSI o autolesionismo non suicidario. In cosa consiste nello specifico?

G. C.

Con autolesionismo non suicidario si definiscono le condotte di attacco intenzionale al corpo fra le quali tagli, bruciature, strofinamento eccessivo, colpi autoinflitti o il tentativo di impedire a una ferita di cicatrizzarsi. Il tutto è volto ad ottenere sollievo da una sensazione o uno stato emotivo negativo, risolvere una difficoltà interpersonale e a indurre, in tal modo, una sensazione positiva.
Per mezzo di tali gesti, l’individuo prova a gestire le emozioni spiacevoli e soverchianti attraverso un tentativo di procurarsi  una sensazione di “scarica” e rilassatezza che deriva, proprio, dal dolore fisico sperimentato in grado, almeno, apparentemente, di contenere il proprio dolore mentale.
Essendo il corpo un tema centrale della fase adolescenziale accade, spesso, che l’autolesionismo vada in scena in questa fase del ciclo di vita.

Rispetto a quanto mi stai dicendo, un punto mi ha profondamente colpito: il dolore.
Come
può, un ragazzo trovare sollievo da una sofferenza così forte e auto infitta al  corpo?

G. C.

Si tratta di un meccanismo neurofisiologico. Quando ci si procura un taglio si prova un dolore acuto e attraverso questo gesto il cervello viene stimolato a produrre ormoni che, a loro volta, hanno effetti rilassanti e analgesici. a qui il corpo raggiunge una sensazione di rilassamento: spostare il dolore da una sofferenza di tipo psichico ad uno più concreto, fisico, è maggiormente “tollerabile”.

Sappiamo che detti comportamenti non sono legati a tentativi di suicidio, ma sono messaggi, i quali contengono in sé un urlo.
Cosa ci stanno dicendo i nostri ragazzi, secondo la vostra esperienza sul campo?

M. O.

È importante dire che autolesionismo e tentativo di suicidio, in realtà, sono due manifestazioni cliniche differenti, anche se, accomunati dall’esistenza di un gravissimo malessere sottostante.
Nell’autolesionismo non c’è desiderio di morire ma, al contrario, la funzione di esso, paradossalmente, è di garantire la sopravvivenza psichica dell’adolescente.
Con gli agiti autolesivi, il ragazzo o la ragazza cercano di fronteggiare il proprio dolore psichico, anestetizzandolo: essi consentono uno spostamento dal dolore mentale acuto, incontrollabile e intollerabile, a quello espresso sul piano fisico, concreto e controllabile.

Dottoressa Marta Ostinelli

Partiamo da questo presupposto: ogni storia è una storia a sé.  Quali possono essere i fattori scatenanti?

G. C.

Per comprendere la condotta autolesionista serve tenere in considerazione l’unicità di ogni storia di vita dentro alla quale si manifesta e sviluppa il sintomo.
È necessario tenere in considerazione fattori di tipo individuale, legati cioè  alle esperienze di vita di ogni ragazzo, fattori di natura familiare, sociale, ambientale  e anche di tipo scolastico.
Questi piani, infatti,  si intersecano, sempre, in ogni tentativo di attribuire un senso al sintomo che abbiamo di fronte che, a sua volta,  è espressione di una sofferenza non raccontata.
Tra i fattori psicologici alla base del fenomeno esiste, senz’altro,  una difficoltà da parte del ragazzo a verbalizzare i propri vissuti emotivi, che vengono espressi, come dicevamo prima, con attacchi diretti al corpo.

Hai accennato a un discorso familiare, hai voglia di entrare nel merito di dinamiche familiari disfunzionali che potrebbero essere l’origine di tale disturbo?

G.C.

Anche in questo caso è, sempre, difficile generalizzare, nel senso che bisogna, sempre, cercare di entrare nell’unicità, come già detto prima, della storia e del contesto di vita dell’adolescente, cercando di acquisire delle chiavi di lettura che aiutino a dare un senso a questo malessere.
Senza per forza entrare in una dinamica disfunzionale, può esserci, più semplicemente, una fatica da parte dei genitori nell’insegnare ed aiutare il figlio a riconoscere e gestire le proprie emozioni: questa è proprio la difficoltà che sta alla base di una condotta autolesiva, il fatto di non riuscire a identificare i propri vissuti emotivi e, anziché verbalizzarli, vengono agiti.

Si manifestano, inizialmente, in età adolescenziale.
Addentriamoci in questa fase, delicata.


M.O.

L’autolesionismo si manifesta, prevalentemente, nella fascia pre- adolescenziale e adolescenziale.
Questo, sicuramente, è in linea con l’importanza che il corpo assume in questa specifica fase dello sviluppo. Il corpo dell’adolescente è un corpo in trasformazione. Mi riferisco, in particolare, allo sviluppo psico – sessuale e ai cambiamenti sul piano dei caratteri sessuali secondari.
Il fatto che il corpo sia così al centro dei cambiamenti in fase adolescenziale lo rende spesso uno dei canali  attraverso i quali si può esprimere il malessere del ragazzo.
Il corpo, risulta, inoltre, essere un confine tra il dentro e il fuori, tra l’apparato fisico e psichico. Le condotte autolesive, provocando un dolore acuto, di fatto, stimolano il cervello a produrre ormoni che hanno effetti rilassanti e analgesici. Questo meccanismo di risposta, che ha una base neurofisiologica, si attiva ad ogni taglio e può provocare persino l’instaurarsi di una sorta di dipendenza dagli agiti autolesivi stessi. Una volta installata la “dipendenza”, questa modalità di gestione della sofferenza, in qualche modo, parte poi come una risposta automatica a fronte di situazione emotivamente impattanti.
Dobbiamo anche dire che esiste una piccola percentuale di gesti autolesivi nei bambini.


Dottoressa Giulia Cattarini

Parliamone, approfondiamo questo discorso.

M. O.


I gesti autolesivi nei bambini si manifestano in  forma diversa rispetto a quelli tipici della fase adolescenziale;  essi sono legati a gesti come sbattere la testa contro il muro, picchiarsi, tirarsi i capelli, darsi i pugni e, molto spesso, ci sono anche cadute intenzionali, il lanciarsi per terra.
Infine,  spesso, si arriva a procurarsi contusioni o fratture.
Questo è il sintomo dell’agito autolesivo nei bambini e, chiaramente, anche in questi casi, è importante osservare e comprendere ogni singola storia e fare una diagnosi differenziale rispetto ad altre manifestazioni cliniche specifiche, di questa fascia come ad esempio il disturbo dello spettro autistico o casi di ritardo mentale.
Per dare un significato a queste condotte nell’infanzia, possiamo pensare che il bambino, in quel momento, stia vivendo una situazione di tensione emotiva interiore che è per lui intollerabile e per la cui gestione  non possiede ancora strategie funzionali.


In un bambino, cosa può provocare questa tensione emotiva? Sempre tenendo presente l’unicità della storia, al fine di evitare generalizzazioni.

M.O.

I bambini hanno moltissime sfide, ad esempio, quella della tolleranza alla frustrazione che devono imparare a gestire: una tensione emotiva può essere, per l’appunto, l’incapacità nel tollerare la frustrazione.
Il bambino, non possedendo ancora le parole per verbalizzare il suo stato interno, potrebbe, ad esempio, ricorrere all’azione, utilizzando il proprio corpo come mezzo per esprimere come si sente e, quindi, regolare le proprie emozioni attraverso un agito come quelli precedentemente descritti. Ovviamente perché siano etichettabili come “comportamento problema” ci si deve trovare di fronte a fenomeni pervasivi, che non solo deviano dalla “norma”, ma anche che accadono spesso/ sempre. Nei casi in cui un genitore si dovesse trovare in dubbio rispetto alla frequenza di tali comportamenti ed al senso, è bene rivolgersi ad un professionista.

L’autolesionismo, può essere associato ad altri disturbi di natura psichica? Parliamo, quindi, di comorbilità.

G.C.

Sì, può esserci correlazione con altre manifestazioni psicopatologiche, ma può essere, ancora più spesso e in generale, il segnale di una scarsa capacità nel regolare gli impulsi. C’è da dire che quest’ultimo è un aspetto non necessariamente racchiuso dentro un’etichetta diagnostica e, proprio per questo, è importante affidarsi a un professionista per inquadrare il sintomo e il funzionamento individuale del ragazzo, in modo tale da fare una diagnosi differenziale che aiuti ad attribuire un significato a quanto sta accadendo.
Sicuramente, la condotta autolesiva può presentarsi unita ad altri tipi di comportamenti impulsivi, ma non per forza è associata, in modo lineare, ad altre psicopatologie, manifestandosi, spesso, come un comportamento a sé stante.
Per fare  un esempio di comorbilità,  la condotta autolesionista può essere legata all’abuso di alcol o sostanze stupefacenti, oppure a un DCA ( disturbo della condotta alimentare), cioè disturbi nei quali l’impulsività svolge un ruolo centrale, nei quali ad una sofferenza di tipo psicologico e a un emozione spiacevole viene abbinato un comportamento agito piuttosto che verbalizzato.
Nel primo caso a un’emozione spiacevole si associa l’assunzione di una sostanza o alcol, nel secondo, per esempio, un’ abbuffata.         

Per quanto riguarda il trattamento, nella sua materialità, come devono muoversi i genitori?


M.O.

Ci sembra importante che l’approccio dei genitori sia tanto preventivo -per evitare l’insorgenza di questi atti-  quanto di cura nel momento in cui gli agiti autolesivi sono già in atto.
Dal punto di vista della prevenzione prima e della cura poi è necessario saper riconoscere le proprie emozioni per imparare a verbalizzarle anziché agirle. Le emozioni maggiormente correlate alla condotta autolesiva sono la rabbia, l’ansia, lo stress, la tristezza, la frustrazione, ma anche il vuoto interno, la disperazione, i sensi di solitudine e vergogna ed, infine, il senso di colpa.
Tra l’altro proprio questi ultimi due, sono presenti nell’agito autolesivo sia nel prima che nel dopo l’attacco al corpo, perché possono esserne alla base e perché, nel dopo, l’adolescente si vergogna molto e si sente in colpa rispetto all’agito che ha messo in atto.
Chiaramente, il trattamento indicato è da valutare in funzione della persona e della singola situazione.
Possiamo dire che, solitamente, si può prevedere una psicoterapia individuale, spesso abbinata a una presa in carico di tipo familiare.
La famiglia è, infatti, una risorsa, nell’aiutare l’adolescente a riconoscere e verbalizzare quelle che sono le emozioni che lui , appunto, non riesce ad esternare, tant’è che poi le agisce.
Come Centro Plinio, cioè centro di Fondazione Rosa Dei Venti Onlus, proponiamo anche un percorso di sostegno alla genitorialità che ha lo scopo di aiutare i genitori ad acquisire degli strumenti utili da spendere nella relazione con il proprio figlio sofferente.  Valutando caso per caso, è anche poi possibile attivare dei percorsi educativi domiciliari, piuttosto che di accesso al centro diurno di Fondazione Rosa dei Venti onlus. Tali percorsi sono da valutare ed indicare come trattamento per  i casi di maggiore gravità, nei casi in cui, ad esempio, la condotta autolesiva può mettere a rischio il ragazzo o essere associata ad altre compromissioni o difficoltà, pensiamo al caso in cui oltre agli agiti autolesivi abbiamo, anche, un calo della socialità, a volte, addirittura, un ritiro sociale e, quindi, lo spettro dei trattamenti possibili deve tenere conto delle aree di fatica, ma anche di risorsa e muoversi di conseguenza.


Entrambe avete detto due cose, che hanno subito catturato la mia attenzione: Giulia ha parlato di disturbo della condotta alimentare, poc’anzi tu, hai parlato di vergona e senso di colpa nell’ambito dell’autolesionismo, elementi, questi ultimi che caratterizzano anche i DCA, nei confronti di cibo e corpo. È possibile affermare che esiste un filo rosso tra psicopatologie e che quanto muta è solo la manifestazione?

M. O.


Innanzi tutto, rispetto al senso di colpa e vergogna, possiamo dire che sono emozioni secondarie, nel senso che nell’essere umano non sono innate, ma apprese all’interno del contesto sociale di appartenenza: mi vergogno degli altri, mi sento in colpa perché ho “tradito” un riferimento normativo esplicito o implicito derivante dalla società di cui faccio parte. Entrambi questi vissuti, benchè funzionali a guidare il nostro comportamento, possono diventare difficili da gestire ed essere causa di sofferenza mentale.
Quindi, in questo senso, spesso troviamo la presenza di tali vissuti all’interno di manifestazioni psicopatologiche differenti, benchè senso di colpa e di vergogna non siano chiaramente le uniche motivazioni alla base di un disagio.

Torniamo all’oggetto della nostra intervista: l’autolesionismo, può tradursi in suicidio? Se sì, come si può prevenire?

G.C.

Rispetto a questo, in letteratura, ci sono pareri discordanti. Alcuni autori sostengono vi sia una netta differenza tra autolesionismo e suicidio, dettata proprio dal diverso obiettivo.
Il primo, infatti, mira a ridurre la tensione e a distrarsi e si rivela una sorta di “auto-cura”, il secondo riguarda, invece, il chiaro intento di togliersi la vita.
Un altro filone di pensiero, colloca, di contro, l’autolesionismo all’interno di un “continuum di letalità” dove non si considera se ci sia o meno l’intenzione di morire, ma si considera concretamente il rischio di morte associato al comportamento messo in atto.
Dal nostro punto di vista, il comportamento autolesionista merita di essere preso in seria considerazione proprio perché riguarda, comunque un “passaggio all’atto”, un modo cioè attraverso cui il dolore  si sta esprimendo concretamente, avendo come bersaglio il corpo.
Come prevenire? Cercando di intervenire il prima possibile: qui è importante anche la risposta dei genitori.
Spesso i ragazzi fanno di tutto per nascondere la loro difficoltà, come dicevamo prima, per vergogna, quindi per i genitori non è facile accorgersene. 
Occorre perciò aiutarli a sviluppare quella capacità osservativa, tramite la quale notare comportamenti che non sono tipici del ragazzo. Ad esempio, si può notare se i ragazzi vestono spesso magliette a manica lunga, specie nonostante il caldo in estate, se cercano di coprire gli avambracci con braccialetti, magari mai messi prima, oppure se trascorrono più tempo del solito in bagno e con una riservatezza atipica o ancora se si presentano al mare senza scoprire le parti in cui si sono tagliati, più frequentemente polsi, avambracci, gambe, inguine.


Questi, sono i segni visibili, vi sono però anche segni “ invisibili”.

G. C.

C’è anche il piano non visibile, quello legato al versante emotivo. Qui è importante osservare se ci sono cambiamenti umorali importanti e notare la presenza di stranezze nel comportamento del nostro ragazzo. Molto importante è la risposta del genitore, perché occorre, ancora prima di rivolgersi ad un professionista, assumere un comportamento autenticamente empatico. Sono da evitare atteggiamenti di drammatizzazione o minimizzazione poiché il gesto autolesivo non va né “caricato” né “sminuito”, ma considerato per ciò che è, ovvero l’espressione di una grande sofferenza mentale.
Da questo momento, il genitore dovrebbe poi farsi guidare da un professionista nell’accostarsi a quanto accade e nel tentativo di attribuire un significato al gesto del ragazzo, senza giudizio e senza anteporre divieti.
Spesso si assiste a genitori che chiedono ai propri figli di promettere che non si taglieranno più e nel lavoro con questi ultimi, occorre aiutarli ad uscire dalla logica incentrata sul giudizio e sulla richiesta di promesse per favorire la loro capacità di stare accanto ai propri figli.


All’interno di un contesto scolastico, un insegnante come può accorgersi della sofferenza mentale del ragazzo? La scuola come può aiutare o supportare?

M.O.

Sicuramente, la scuola può fornire un aiuto preventivo nell’aiutare a verbalizzare le emozioni e normalizzarle, soprattutto nei momenti meno strutturati.
Attualmente, ci sono all’interno di molte scuole superiori e medie laboratori focalizzati sull’importanza della verbalizzazione delle emozioni, sul loro riconoscimento e sulla loro condivisione.
Per quanto riguarda gli insegnanti mi viene da dire che i segnali sono simili a quelli che dovrebbero allenarsi ad intercettare i genitori.
Spesso, accade, che gli insegnanti ci riportano che nei momenti più destrutturati, come nelle ore di educazione fisica, è più facile intercettare eventuali tagli sul corpo.
Quindi, di fatto occorre aprire un dialogo con la famiglia e con i ragazzi.
Ricordiamoci sempre che non possiamo chiedere a qualcuno di non fare qualcosa, se quel qualcosa è l’unico strumento che possiede per dare voce al suo dolore, ma occorre fornire altri mezzi, che permettono di scegliere cosa fare o cosa non fare e come rispondere ad un vissuto.
Quindi, la promessa a non fare non serve, ma occorre accompagnare con autentica empatia e stare accanto a questa sofferenza mentale.

Quando parliamo di psicopatologie, in realtà non esiste una guarigione vera e propria, ma una stabilizzazione, una gestione del sintomo.

G.C.


In questi casi, parlare di guarigione significa imparare a conoscersi e a mettere in atto strategie con l’obiettivo di interrompere il meccanismo automatico per cui si arriva all’agito autolesivo. Questo non significa che potrebbe non accadere mai più ma che in terapia si lavora affinché accada sempre meno e affinché i meccanismi alla base diventino da automatici a consapevoli. In alcuni casi poi succede che ci sia una remissione stabile e duratura del sintomo.

Esatto, era proprio questo a cui volevo arrivare.

G.C.

Come dire, se il nucleo centrale dell’autolesionismo è proprio il fatto di agire le emozioni e non riuscire a verbalizzarle e gestirle in modo sano e funzionale, nel momento in cui si riesce a imparare una diversa strategia, a riconoscere le proprie emozioni quando ci stanno pervadendo, è possibile riuscire poi a fermarsi e utilizzare un diverso modo per comunicarle. Va da sé che si arriva alla soluzione del problema in quanto si apre una nuova panoramica.
Ci possono poi essere delle ricadute, quindi è importante eliminare il divieto perché in un momento delicato o di stress può capitare di rimettere in atto una modalità a me “cara “, conosciuta, che mi aiuta, seppur in modo disfunzionale: può succedere, però, in fondo, avendo imparato delle nuove strategie si può ripartire.

Secondo voi, è esatto di dire che guarigione significa imparare a bloccare i meccanismi?

G.C.

Sì, è importante innanzitutto osservarsi con curiosità, esplorare e conoscere i propri modi di funzionamento, in quali circostanze accade di mettere in atto tale condotta, che modalità vengono utilizzate e con quale significato.La soluzione poi, se vi è consapevolezza, viene da sé.

Infine, vi chiedo qual è il ruolo del web in questo panorama?

M.O.

Spesso il punto di vista di alcuni genitori e di alcuni insegnanti è che il web, in qualche modo, abbia una funzione demoniaca: mio figlio, il mio alunno, si taglia perché ha visto sul web che è di moda, che alcuni ragazzi lo fanno, insomma, una sorta di emulazione.
Sono d’accordo sul fatto che sul web ci sono siti che inneggiano all’anoressia, ai tentativi di suicidio, che mostrano e spiegano l’autolesionismo, con gli effetti che esso ha sul corpo.
Quanto mi sento di dire è che il web, anche in questo ambito, ci propina una serie di stimoli che, sicuramente, hanno impatto emotivo su di noi, ma non è la ragione per cui un ragazzo sceglie l’autolesionismo.
Occorre portare genitori e insegnanti a riflettere sul fatto che alla base c’è una sofferenza mentale che, in quel momento, non consente all’adolescente di dividere la propria esperienza da quanto vede sul web, conseguentemente,  quanto vede in esso gli funge da modello nella  gestione della propria sofferenza.
Se l’adolescente stesse bene e se sapesse verbalizzare le proprie emozioni non si infliggerebbe tagli, bruciature e scarnificazioni, anche a fronte del suo essere potenzialmente esposto a contenuti web che inneggiano alle azioni autolesive.

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