martedì, Marzo 19, 2024
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DONNE E UOMINI DESIDERANTI NELLA CITTÀ. IL CONTRIBUTO DELLA PSICOANALISI. Di Luigi Campagner.

Arrivare al bivio

L’alternativa del moderno Ercole al bivio tra vizio e virtù è quella tra il desiderio come mancanza e il desiderio come facoltà. L’immagine è classica, ma Ercole può facilmente rappresentare il soggetto. Una parola che la modernità ha promosso con forza negli ultimi cinque secoli e che noi oggi ereditiamo nel significato dell’essere protagonisti del proprio destino. Ciascuno incontra delle prove e come Ercole deve essere in grado di superarle, ma ogni traguardo apre davanti a sé un bivio che in questo “itinerario a tema” vi propongo come una conquista, non come un fattore disorientante. In un’analisi giungere a un bivio è una conquista. È la possibilità di una scelta che non viene affermata sulla base di un principio astratto e generico come: la libertà o il libero arbitrio, ma diventa l’opportunità concreta di condursi nella propria esperienza in un modo nuovo rispetto agli schemi (insoddisfacenti) fino allora utilizzati. Freud ne parla in Analisi terminabile e interminabile (1938) una delle sue ultime opere dove sostiene che il compito della psicoanalisi non è quello di rendere impossibili le ricadute morbose, ma di condurre il soggetto al bivio tra le dinamiche tipiche dovute alla presenza di un stato morboso e una nuova opzione imprevedibile prima dell’uscita, almeno parziale, dallo stato morboso di partenza. In altre parole per Freud che, per inciso viene erroneamente presentato come determinista (!), la libertà non è mai alle nostre spalle, sospesa in un’affermazione di principio che non ha la forza di tradursi in atti, ma ci sta davanti e rappresenta sempre una conquista attraverso un lavoro.

Aut Aut: o mancanza o facoltà

Il bivio di cui ci occupiamo è dunque quello tra il desiderio come mancanza e il desiderio come facoltà, o desiderio senza mancanza come ha ricordato Elio Franzini nella conferenza di apertura delle Romanae Disputationes 2018 a Rimini, citando la definizione che il filosofo di origine ebraica Emanuel Levinas riserva all’opera d’arte, perché l’arte è svincolata dal bisogno. Con questa frase Levinas ci offre lo spunto per delineare l’alternativa tra la vita come opera d’arte o la vita come espediente. In proposito vi segnalo il bel titolo di un libro di Giulia Kristeva e David Sollers Il matrimonio come opera d’arte, dove potete sostituire a piacere la parola “matrimonio” con un’altra che si attagli più da vicino alla vostra esperienza. L’insistenza di Franzini sul “desiderio senza mancanza” è giustificata perché la teoria maggiormente in voga da parecchi secoli è quella opposta. È la definizione platonica di eros, sinonimo di desiderio che figlio di ricchezza e povertà vive di espedienti: come si dice di un povero costretto a oscillare tra il possesso e la perdita. Un eterno parvenu che non perviene mai al possesso legittimo di ciò che brama. Il mito della mancanza è messo in scena da Platone nel Simposio attraverso il racconto del comico Aristofane il quale narra come in origine gli uomini fossero un’unità di maschio e femmina che gli dei separano in due parti distinte. Da quel momento l’una parte brama il ricongiungimento con l’altra fondando così il desiderio (dell’altro) sulla mancanza. Platone ci sapeva fare, infatti la sua teoria ha attraversato i secoli, sospinta dalla religione e dalla metafisica (entrambe teorie di una mancanza ad essere strutturale) e informando ancor oggi il linguaggio comune. Espressioni come: trovare la propria metà, la mia metà, l’altra metà, la metà di niente ne sono una testimonianza evidente.

Platonismo e ambiguità di Lacan

La traccia della forza di trasmissione della teoria platonica della mancanza come spinta e come desiderio non sono rintracciabili solo nel linguaggio comune, ma anche in un autore a prima vista insospettabile, come J. Lacan, che la fa propria in uno dei suoi disorientanti aforismi sull’amore: “amare è dare quello che non si ha!”.1 Ovvero la mancanza. L’amore in questa versione sarebbe lasciare nell’altro la traccia della propria mancanza. Una prospettiva nella quale amore coinciderebbe con il sentimento della assenza: “ti amo perché mi manchi”. L’aforisma di Lacan è particolarmente insidioso perché confonde l’esperienza riuscita dell’amore con il senso di colpa: ti amo perché manchi è infatti l’esperienza del senso di colpa. Una confusione particolarmente rilevante in uno psicoanalista. Tuttavia Lacan è sibillino e molto abile a giocare con l’ambivalenza. Per tale motivo non è facile trovare una piena adesione dell’autore a una delle sue stesse tesi, neppure a quelle diventate mainstream come quella appena ricordata. Non a caso con altrettanta determinazione Lacan sosteneva di non voler essere amato, ma di voler essere trattato bene. Lacan sa bene che l’amore non è mancanza, ma prodotto, vantaggio, surplus (di godimento). Nell’affermare di non voler essere amato, è addirittura intimidatorio: non ci provate nemmeno lasciarmi la traccia – che sarebbe poi una ferita, una cicatrice – della vostra mancanza. Tuttavia Lacan è sempre cangiante e non si trova mai in una sola delle sue affermazioni. Sta al lettore trovare una strada. Lacan non va assimilato. Va decodificato. È un’abilità che devo alla mia trentennale frequentazione di un libro L’ambiguità di Lacan, che non è mai stato scritto, o meglio che è stato scritto in forma diffusa da Giacomo Contri nella sua Opera Omnia edita on line2, il corpus dov’è compendiato il suo insegnamento ultra quarantennale.

La pulsione come alternativa

L’altro paradigma al cospetto del quale si trova l’Ercole contemporaneo è presente nella Parabola dei Talenti (Matteo 25,14-30) che si conclude con una frase famosa: “a chi ha sarà dato”. Nell’ambito del nostro “itinerario a tema” possiamo riproporla in questo modo: “a chi ha fatto esperienza di soddisfazione sarà dato di farne di nuove”. La frase del Vangelo di Matteo è una frase inclusiva, perché ad ogni uomo donna che nasce è dato di fare l’esperienza iniziale di soddisfazione coincidente con l’esperienza preconscia del suggere: succhiare con piacere (e fino a soddisfazione), durante allattamento. Tale esperienza è quella della pulsione, ovvero il cuore della ricerca di Freud. La pulsione (trieb) è il nome del desiderio del soggetto per Freud. E il soggetto – meglio precisarlo – per Freud è “l’io corpo”. Un’unità inedita delle esperienze di corpo e pensiero che consentono a Freud di affermare che il soggetto del pensiero sia il corpo. O, ma è lo stesso contenuto, che iniziamo a pensare con il corpo. Motivo per cui i pensieri che chiamiamo sogni ci risultano spesso incomprensibili. Perché non sogniamo (solo) con i concetti, che sono acquisizioni tardive nell’esperienza del soggetto, ma con le nozioni del corpo (profumi, odori, immagini, sensazioni tattili e plastiche organizzate solo da principio piacere/dispiacere – gradito/sgradito) che il bambino assimila ed elabora ben prima di acquisire qualsivoglia capacita astrattiva e di organizzazione cronologica.

Per Freud libido è un sinonimo di pulsione. Questa sinonimia chiarisce subito una cosa: che quando parliamo del corpo si tratta del corpo sessuato. La fase matura della pulsione per Freud è quella genitale. La forza del desiderio è di avere l’io corpo come soggetto, come titolare, e di includere, fin da quando ne diventiamo consapevoli, i sessi. La distinzione sessuale non è a infatti innata o a priori, ma al contrario è a posteriori. Lo psicoanalista Giacomo Contri ha reso questa situazione con la seguente fase “Il bambino (piccolo) non fa questione di sessi ma di trattamento”. La differenza sessuale è dunque un’acquisizione, o se preferite una conquista, e come tale può essere persa. Noi viviamo in un’epoca dove questa basilare acquisizione rimane in sospeso ed è a rischio. Ovviamente non manca l’evidenza nel senso husserliano del tornare alle cose (evidenza oggettiva). Manca l’evidenza, in termini di esperienza, del vantaggio di tale differenza.

Il nome proprio del desiderio in Freud è dunque pulsione, la quale si articola in quattro momenti: la fonte, la spinta, l’oggetto e la meta. In questa articolazione si fonda la distinzione fondamentale tra bisogno e desiderio: il bisogno si soddisfa solo con oggetti specifici (non si può mangiare per dissetarsi…) mentre il desiderio ha solo mete che sono il frutto della capacità di investimento e lavoro del soggetto. Ma ciò che qui importa sottolineare è che la pulsione ha due polarità: una interna e una esterna. Nasce nel soggetto per la chiamata esterna di un altro e si conclude nell’altro. La pulsione avviene infatti grazie ad eccitamenti. È un avvenimento, che in quanto tale potrebbe anche non avvenire. È il caso del neonato prematuro nutrito artificialmente nell’incubatrice che non accede alla pulsione finché non accederà alla nutrizione tramite l’eccitamento da parte di una fonte esterna. Ciò significa che la pulsione è un movimento che avviene in un rapporto, in una relazione dove i due poli risultano l’uno per l’altro una fonte esterna. Diversamente da come anche molti manuali lascano intendere la pulsione non è un fenomeno dell’interiorità (una spinta che viene dalle profondità oscure del soggetto), ma dell’esteriorità. In questo senso non c’è l’eccitamento, in senso univoco. Ci sono gli eccitamenti, in base alla diversità delle fonti esterne. Il desiderio di fare danza, o giocare a basket, di iscriversi a una certa facoltà, di avere relazioni soddisfacente con gli amici e le amiche, di aver successo in amore ecc. sono solo un assaggio della policromia del desiderio. Trovate qui un punto di contatto (non l’unico) con la relazione di Recalcati.

La fonte esterna della pulsione/desiderio ne individua la genesi, nel senso – in questo invece mi discosto da Recalcati – che non siamo abitati da nessun desiderio. Il desiderio nasce (o muore) nella relazione. Non è infatti possibile – in particolare da parte di uno psicoanalista – censurare l’esperienza della frustrazione di un desiderio da parte di un altro che, anziché porsi come facilitatore, si op- ponga come ostacolo. Tema indagato anche da un recente film di Denzel Washington dal significativo titolo Barriere (2018). Per quanto possa essere suggestiva, l’idea di essere abitati da… corrisponde all’esperienza della nevrosi ossessiva, espressa dalla frase comune: “è più forte di me”. Tale frase definisce la compulsione, la coazione a ripetere che impedisce l’alternativa, il bivio da cui il presente itinerario ha preso inizio. Da un punto di vista clinico l’idea di essere abitati da…confonde l’inizio della terapia, dove tale affermazione può essere sostenuta con convinzione, con la sua conclusione, dove invece le fonti esterne degli eccitamenti e dei desideri, come anche i partner, gli alleati o, all’opposto le “barriere” e gli ostacoli, sono chiaramente riconosciuti e come tali sanzionati. È noto come alcuni importanti filosofi, penso a Spinoza e a Schopenhauer, o importanti scuole di vita come le scuole ellenistiche, il buddismo o l’induismo, temano il desiderio ed abbiano come scopo la sua sedazione o estinzione completa attraverso esperienze come l’atarassia, il nirvana o la noluntas. Tali “soluzioni finali” a proposito del desiderio intendono contrastarne la dimensione di forza impersonale che abitando il soggetto, ma non essendo del soggetto, lo ridicolizzano come “lo zimbello della specie” di cui parla Schopenhauer. Come eccitamento il desiderio ha sempre una fonte esterna. In questo senso il desiderio è generato: ha madri e padri, fratelli e sorelle, partner, amici e nemici3. La natura relazionale della pulsione fonda una delle tesi forti di Freud per il quale la psicologia individuale è sempre sociale4, motivo per il quale il lavoro di analisi, come terapia, non è solo un lavoro di cura a livello individuale, ma è anche un lavoro per la ricostituzione del legame sociale, a partire dal particolare legame che si istituisce tra i soggetti protagonisti della relazione terapeutica.

Curare il desiderio

 Come terapia la psicoanalisi incontra il desiderio nella difficoltà, nell’indecisione, nella confusione, nel blocco delle direzioni opposte o smarrito in un labirinto. Tale descrizione è così pregnante che non sarebbe sbagliato definire un’analisi come “terapia del desiderio”. In un soggetto sano il primo desiderio è quello di star bene,

ma la psicoanalisi conosce altrettanto bene il desiderio di nascondersi, di rifugiarsi nella malattia. È il desiderio mimetico di cui parla Renè Girard nelle sue opere. La cura o riabilitazione del desiderio passa dunque dalla riabilitazione del rapporto, della relazione, del legame sociale. In termini generali possiamo affermare che il soggetto sano (o ragionevolmente guarito) mantiene una sufficiente fiducia nel altro come possibile partner del proprio desiderio e della propria soddisfazione. Mentre nella patologia tale fiducia crolla, è gravante, compromessa o è mantenuta in astratto, ma non con le persone reali. Il crollo del desiderio coincide con il crollo della fiducia nella capacità di costruzione di una relazione affidabile. Vi sono poi delle soluzioni compromissorie dove l’affidabilità è sostenuta in astratto, ma non è ricercata e realizzata nelle relazioni reali. Come casi emblematici di desiderio nella crisi (rinuncia al desiderio e desiderio nella confusione) prendo spunto da Walter White e dal Professore, i protagonisti di due serie tv che hanno avuto un successo internazionale di critica e di pubblico: Breaking Bad (2008-2013) e La casa di Carta (2017-2018).

Chi ha seguito, appassionandosi, le vicende di Walter White si sarà domandato da dove arrivi la spinta (uno dei quattro articoli della pulsione) a realizzare l’impero criminale che man mano si impadronisce della mente del protagonista di Breaking Bad. La spiegazione viene data nel sesto episodio della quinta stagione in un intenso dialogo tra W. Withe e il giovane complice Jesse Pinkman:

“Jesse: Io… Io non so come altro dirtelo, signor White. Cinque milioni di dollari non sono “niente”. Walt: Hai sentito parlare di una compagnia chiamata Grey Matter?

Jesse: No.

 Walt: Be’, l’ho cofondata ai tempi della specializzazione con un paio di amici. Per la precisione l’ho chiamata io così. Allora era solo una cosa dilettantesca. Avevamo un paio di brevetti in corso di registrazione, ma niente di sconvolgente. Eravamo consapevoli però del suo potenziale. Sì, avremmo conquistato il mondo. Questo pensavamo. Poi questa… Be’, successe qualcosa fra noi tre e, non scenderò in particolari, ma per motivi personali decisi di lasciare la compagnia e vendetti la mia quota ai due soci. Accettai una buonuscita di ben cinquemila dollari. Ah, be’, a quel tempo si trattava di un sacco di soldi. Indovina quanto vale adesso la compagnia?

 Jesse: Eh… Milioni?

Walt: Miliardi. Mi spiego? 2,16 miliardi fino a venerdì scorso. Controllo tutte le settimane. E io ho venduto la mia quota, il mio potenziale, per soli cinquemila dollari. Ho venduto il futuro dei miei figli per qualche mese d’affitto.

 Jesse: Non è la stessa cosa, però.

 Walt: Jesse, ricordo che mi hai chiesto se il nostro scopo fosse produrre metanfetamina o fare soldi. Nessuno dei due. Costruire un impero è il mio scopo. (Stagione 5, episodio 6, “Buonuscita”)

Il desiderio di avere successo negli affari a cui il protagonista aveva rinunciato anni prima per “un impalpabile sentimento di indegnità” provato nei confronti di Gretchen, la fidanzata e allora socia della piccola start up destinata a diventare l’impero della Gray Matter, ritorna come “rimosso”5 (uno dei nomi che Freud dà al sintomo) in forma criminale, come un impero povero perennemente instabile destinato a implodere. Il desiderio di White è un desiderio, rimosso prima e rinnegato poi che non trova altra strada per affermarsi che patologica, allucinando un guadagno rimasto infatti illusorio che costerà invece al protagonista la perdita di quanto aveva di più caro. A metterci su questa strada è lo stesso Vince Gilligan, il regista della serie che

non ha mai nascosto che la “svolta dark” del protagonista non andasse ricercata principalmente nella (sua) malattia, ma piuttosto nel feroce risentimento di White, dovuto a un senso di inferiorità nei confronti di Gretchen e della sua famiglia. Il regista è tornato su questa suggestione a tre anni dalla conclusione della serie in un’intervista all’ Huffington Post (Usa, 18 marzo 2016), nella quale ha invitato il pubblico a rivedere con attenzione il sesto episodio della seconda stagione: Vivi libero o muori. In particolare il dialogo tra Gretchen e White dove lei lo accusa di averla lasciata un 4 luglio di molti anni prima, abbandonando la sua casa e la sua famiglia senza alcuna spiegazione. “La situazione è questa – spiega Gilligan agli attori prima di girare il dialogo -: lui non si è reso conto che la ragazza che sta per sposare è molto benestante e che proviene da una famiglia di spicco. Questa situazione lo stupisce molto, facendolo sentire inferiore. Così White reagisce in maniera eccessiva. In qualche modo molla la presa. (…). Credo che le persone tendano a vedere Gretchen e Elliot (l’altro socio, divenuto in seguito marito di Gretchen e miliardario, ndr.) come i cattivi della situazione perché sono una coppia ricca e felice e sembra si siano scagliati contro il nostro eroe Walter White. Ma la verità potrebbe non essere così semplice”.6

La Casa di Carta è stata la serie più vista in assoluto nel 2018 tra quelle non in lingua inglese, il suo successo (inaspettato) ha trascinato in alto nelle classifiche anche la sua colonna sonora: My life is goin on, di Cecilia Krull. La situazione del protagonista, il Professore è differente da quella di Walter White, perché nel suo caso non si tratta della rinuncia o del rinnegamento di un proprio desiderio, ma del suo essere completamente risucchiato dal desiderio di un altro. Per richiamare ancora una volta la metafora del bivio come alternativa potremmo dire che il professore non sia mai arrivato al bivio tra poter scegliere tra un proprio desiderio e il desiderio di un altro. Fin da bambino il desiderio del professore è risucchiato nel sogno di un altro: il sogno del padre rapinatore di realizzare la rapina perfetta. All’insaputa del figlio, allora piccolo e costretto in un letto d’ospedale, il padre era un rapinatore che narrava le proprie gesta al figlio come se fossero episodi di un romanzo giallo o di un thriller, appassionandolo al “sogno” della rapina perfetta. Solo molto più tardi il Professore si rese conto che quei racconti erano reali: tanto reali che il padre vi trovò la morte ucciso dai colpi di una guardia giurata, non lasciando al figlio che la cattiva eredità di quel sogno incompiuto. La vicenda del protagonista della Casa di Carta aiuta a cogliere l’ambivalenza dell’affermazione lacaniana: “il desiderio è il desiderio dell’altro” rilanciata anche dalla lezione di Recalcati. Se è vero infatti che il desiderio ha in sua dimensione relazionale come desiderio di riconoscimento e di essere desiderati è altrettanto vero che il soggetto desiderante dovrà – prima o poi – conquistare la dimensione personale del proprio desiderio attraverso una sorta di auto riconoscimento. Pena ricadere in quelle situazioni che in analisi sono piuttosto comuni, espresse da frasi tipiche come: non era il mio desiderio, ma quello di mio padre, di mia madre, della mia famiglia ecc. Vi cito un passaggio del libro Piano, piano che ho fretta (2010) che narra la biografia di Marco Boglione, un importante imprenditore del Marketing sportivo, titolare della società BasicNet che possiede alcuni importanti brand. Alla fine del liceo si trova ad un bivio, seguire il proprio talento per gli affari o le ambizioni, pur rispettabilissime, del padre: “Stavo per cedere, per diventare ingegnere perito navale, l’ambizione di papà. Quell’anno e mezzo (al politecnico, ndr) fu il più triste della mia vita”. Una vicenda analoga la possiamo rintracciare anche nel film Rusch (2013) quando Niky Lauda, allora giovanissimo pilota di formula1, dovette fare i conti con il ricatto economico del potentissimo padre, che non ammetteva altro futuro per il promettente figlio se non quello di banchiere, come da tradizione di famiglia.

Questo voglio questo chiedo questo bramo

Con questa potente frase di Francesco d’Assisi lasciamo la dimensione del desiderio nella crisi per entrare nella dimensione del desiderio nella normalità del moto a meta, ovvero della sua riuscita. Vanno sottolineati i due verbi della frase di Francesco: voglio! bramo! Espressione di un desiderio ben orientato, uscito dal tunnel dell’indecisione, della confusione, della sottomissione al desiderio di altri. Cosa desiderasse Francesco con tale bramosia e se davvero riuscì, e fino a che punto, a realizzare ciò che bramava lo lascio alla vostra curiosità (dubito fortemente sia un desiderio in grado di coinvolgervi di primo acchito)7. Ciò che intendo mettere in luce è che per arrivare a tale chiarezza Francesco impiegò non meno di 7/8 anni. Prim’ancora il suo precedente desiderio di scalata sociale che lo aveva guidato nella giovinezza fino alla vita adulta era andato completamente in crisi, lascandolo fortemente disorientato e confuso. Questo sta a significare che essere all’altezza del proprio desiderio comporta tempo, coraggio, lavoro. Come anche la forza di sopportare i propri fallimenti. Il desiderio rompe lo status quo, rompe l’equilibrio raggiunto dal soggetto, lo sbilancia pericolosamente verso la meta che intende raggiungere, esponendolo al rischio di non pervenirvi e alla conseguente vergogna sia interiore che pubblica. In altre parole il desiderio espone all’angoscia, un sentimento opprimente molto difficile da sopportate che trova una temporanea sedazione nella rinuncia: la principale via d’accesso alla nevrosi. Visto che ho scomodato Francesco d’Assisi ne approfitto per un ulteriore approfondimento. L’ascesi francescana non ha come scopo la contrizione – ovvero quel lavoro spirituale che serve ad annullare gli esisti del peccato e la volontà di peccare (come nella tradizione monastica) – ma il superamento del narcisismo – ovvero la chiusura del soggetto in se stesso e nel riverbero della propria immagine. Per intenderci velocemente sul narcisismo diciamo che secondo Gesù di Nazareth (ispiratore delle condotte di Francesco) i farisei erano narcisisti – ovvero compiaciuti del rispetto della legge, che è al servizio della relazione con l’altro, ma incapaci della posizione affettiva della sua esistenza. Ovvero impossibilitati a pervenire al riconoscimento dell’esistenza dell’altro come soggetto sentito affettivamente come eguale: egualmente titolare di un proprio principio di piacere e di un proprio desiderio. Superare il narcisismo vuol dire passare dall’autocompiacimento alla percezione affettiva dell’altro come compagno: affine nel desiderio e potenziale partner per la reciproca soddisfazione.

 

Desiderio come passione sociale

 Seguendo Freud ho ricordato che il desiderio è la spinta del corpo verso una meta di soddisfazione. Un movimento verso… che comporta l’andare in crisi di un precedente equilibrio per il raggiungimento di un nuovo status. Il passaggio da una condizione all’altra non può essere garantito a priori, ma comporta l’accettazione di un rischio – come nell’espressione rischio d’impresa, che è sinonimo di investimento-. Negli ultimi decenni questa spinta verso una meta di soddisfazione è diventata un fenomeno globale, che comporta profonde trasformazioni sociali e sollecita gli assetti economici e politici esistenti. È il fenomeno della migrazione che solo il desiderio è in grado di spiegare nell’ampiezza della sua portata. È noto che la psicoanalisi si sia caratterizzata fin dagli esordi per una capacità di lettura di fenomeni che oltrepassano le singole vicende individuali, come lo sono la cultura, la religione, l’arte, i costumi e le dinamiche di una società. Il coraggio dei migranti protagonisti di questa epopea contemporanea ha catturato l’attenzione dello psicoanalista Giacomo Contri che dal suo blog Think! ha dedicato loro una frase ammirata: “sopportano tutto, non temono, non sono umiliati”. Giacomo Contri è stato analizzando con Lacan divenendone allievo e primo traduttore in Italia negli anni ‘70. Come il maestro Lacan anche Contri è noto per i gusti eccentrici in fatto di abbigliamento e per una particolare rivalutazione del lusso: “lusso vs lussuria” è un aforisma che ricapitola alcuni aspetti della sua elaborazione. Questo inciso segnala che a differenza di Francesco d’Assisi Contri non veste il saio, né la sua frase stimante nei confronti dei migranti ha premesse di tipo solidaristico o caritativo. É invece la frase di uno psicoanalista non avulso dalla realtà e dalla cultura in cui vive, come dovrebbe essere ogni psicoanalista. Contrariamente a quanto comunemente si è inclini a ritenere la psicoanalisi non soffia sulla brace dell’egoismo individuale. Se pur non incline a nessuna forma di altruismo di natura oblativa, come

teoria e come tecnica essa individua nella relazione (convenientemente normata) tra soggetti desideranti l’elemento costitutivo del legame sociale. Theraphon significa infatti servo, aiutante, compagno nel lavoro di cura del desiderio. La terapia è un’offerta sociale (su mercato libero) che si declina all’interno di una relazione riabilitativa del desiderio. Tale offerta può essere posta solo da un soggetto che sia stato in prima persona all’altezza del proprio desiderio, almeno di quello che lo ha mosso a rendersi incontrabile come lo psicoanalista. Solo l’habitus quotidiano ad allearsi con il desiderio dell’altro abilita sentire il desiderio dell’altro come affine al proprio e a percepirlo affettivamente come un compagno di desiderio. Identifico in questo affetto per il proprio desiderio e per il desiderio dell’altro il contributo alla costruzione del legame sociale da parte della psicoanalisi: uomini e donne che si scoprono compagni della medesima avventura: partner, co-responsabili della sorte della propria passione e del proprio desiderio.

 

 

Ganzetti Raffaella
Ganzetti Raffaella
Sono nata a Milano ormai molti anni fa e nella mia faticosa vita ho effettuato tante esperienze sia umane che professionali. Ho avuto inizialmente esperienze con bambini anche se il mio interesse si è sempre rivolto alla fascia adolescenziale o giovane adulti. Ho avuto la fortuna di lavorare per tanti anni con persone con disabilità sia grave che lieve che ai limiti inferiori di norma, occupandomi dell’aspetto educativo e successivamente terapeutico. L’esperienza mi ha portato a ideare modelli d’intervento sempre maggiormente centrati sulla persona che è l’unico protagonista della sua vita anche in caso di disabilità. Nelle diverse formazioni che ho effettuato a genitori e a personale che si occupa di sociale ho sempre cercato di far comprendere l’importanza dell’ascolto empatico, del contenimento emozionale elementi che nel tempo sono diventati la base del mio metodo. Già Direttore Responsabile di un altro giornale on line la cui redazione era formata da persone con disabilità ora mi accingo a portare avanti un nuovo progetto “Milano più Sociale”
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