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Milano più sociale. Periodico di informazione online

PAROLE SULLA FRAGILITA’

| Ganzetti Raffaella |

… Costruire sulla sconfitta e sempre rialzarci tessendo giusta prossimità, creativa solidarietà, eque collaborazioni, rispettosa presenza, sapiente collaborazione, sodale fraternità tra noi uomini  e tra noi e la “nostra sora e madre terra” dove camminiamo …

luce_paceEro bambino (A) e nonna Ines (N) mi raccontava questa storia:

N: C’era una volta un re che abitava in una grande montagna.  Ai piedi della montagna c’erano le strade che portavano in tutte le parti del mondo.  Il re, per mostrare la sua grandezza e la sua forza, fece costruire dai suoi migliori artigiani una grande, alta statua da porre proprio ai piedi della montagna così che tutti quelli che passavano per le strade, la vedessero.  Così, quel re ambizioso….

A: cosa vuol dire nonna che quel re era ambizioso?

N: che riteneva di avere più capacità e forze di quante ne possedesse.

Dunque, riprendiamo;  quel re ambizioso e potente…

A: e potente cosa vuol dire?

N: che pensava di poter fare tutto ciò che voleva.

Allora quel re ambizioso e potente diede ordine agli argentieri e agli orefici: “La testa della statua sia d’oro perché nel mio regno e nella mia persona ci sono sapere, saggezza e giustizia”

A: giustizia, nonna, che significa?

N: che ognuno ha quanto gli serve, secondo il suo bisogno, così che non ci sia chi ha molto e chi ha poco o nulla.

Poi il re continuò dando ordine ai fabbri: “Il corpo sia di bronzo perché nel mio regno e nella mia persona ci sono la forza, l’allenamento, la preparazione e abbiamo bravi fabbri che fabbricano lance e frecce”.

A: Anche lui –nonna- aveva i muscoli come i miei, vero?

N: Beh, tu sei piccolo, lui era grande!

Infine diede ordine ai muratori: “Fate una buona base a forma di piedi, con mattoni d’argilla e  calce, sui quali montate la grande statua”. E quando la montarono, la statua era davvero maestosa e bella a vedersi;  al sole, la testa d’oro, mandava riflessi che si vedevano da lontano. I passanti rimanevano ammirati e il re, dall’alto della montagna, tutto contento, pensava di aver realizzato la più bella e meravigliosa opera che celebrasse la sua grandezza.

Presto però, si abbatté su quella montagna –per diversi giorni- una pioggia scrosciante e torrenziale…

A: no, nonna, un’altra volta mi avevi detto: “un terribile acquazzone”.

N: Sì, hai ragione, un terribile acquazzone che portò tanta acqua sui piedi della statua i quali – essendo di argilla- lentamente si sciolsero e, dopo qualche giorno….

A: la statua cadde e si frantumò in cento pezzi.

N: E così, quel re ambizioso, potente e presuntuoso…

A: questo è un nome nuovo, che vuol dire?

N: presuntuoso è chi è convinto di non avere limiti, di riuscire sempre in tutto, che non s’accontenta mai, che non sa perdere.

Ebbene, quel re presuntuoso, anziché capire che la fragilità stava tutta sui piedi della statua, preso dall’ira, fece uccidere gli operai che avevano lavorato e faticato per costruirla. Perché, vedi, chi troppo vuole….

A: nulla stringe.

N: chi già troppo ha…

A: sempre più vorrebbe.

     Uffa, nonna, dai raccontamela ancora!

N: No, adesso dormi, buona notte, cucciolo!

Dovetti diventare adulto per scoprire che la mia buona nonna, aveva preso –rimaneggiandola- la storia dal biblico libro di Daniele (cap. 2).

Sì, la fragilità dell’uomo sta nei suoi piedi, nel suo stesso essere, nel suo camminare.

Fa parte della condizione umana, è una datità consustanziale al nostro essere umani e, il prenderne consapevolezza,  può produrre tre stati dell’animo.

Il primo: non accettarla! Il suicihuman_fragility_by_djoedio è la manifestazione più grande e tragica della non accettazione che –confliggendo con l’ineluttabilità della nostra umana condizione- crea un cortocircuito psichico che affossa in quella commozione profonda che è la disperazione  e trova soluzione nella negazione di sé.

Non dimenticherò mai un biglietto che mi scrisse, molti anni or sono, un giovane diciannovenne appena brillantemente diplomato al classico: “Vivo un senso di impotenza che mi logora; tutto il latino e il greco studiati che mi servono? A nulla! Mio padre pensa solo al lavoro e ai soldi, non parliamo mai; mia madre bada più a mie sorelle e poi…..è bigotta. La ragazza che amo non mi corrisponde. Che facoltà scegliere?  Non so se ho spalle (e palle) da reggere il peso di vivere. Ieri sera mi dicevi di trovare un senso alla mia vita,  ma quale senso la giustifica se essa è sottile quanto un filo di seta e si potrebbe spezzare da un momento all’altro?”

Si iscrisse all’Università  a  filosofia, ma non andò ad alcuna lezione: quel “filo di seta” era la corda che l’aveva impiccato al soffitto della sua camera.

Gli adolescenti sono fragili: solo l’uomo maturo sa reggere la verità e la relatività delle cose.

La formazione dei giovani avviene con relazioni di accompagnamento innanzitutto all’interno della famiglia: è un accompagnare all’accoglienza della realtà, delle verità relative proprie del mondo degli uomini; ciò richiede dialogo, porsi sullo stesso livello, scavare nel disincanto, inventare (=ritrovare) accadimenti per rileggerli (=riconoscersi),p121 interpretarli, stare con i giovani nei loro sandali di incertezze, di interrogativi e di desideri;  essere pazienti nel lasciare il tempo necessario al giovane per capire, scegliere, fare; mai quindi essere invadenti e, men che meno, narcisisti.

Se l’adulto accompagnatore è ancora narcisista, giustifica la permanenza del narcisismo nell’adolescente e gl’impedisce l’evoluzione, la maturità. Qui sta l’estrema vulnerabilità del lento formarsi dell’identità, con tutti i suoi conflitti.

Per chi, come me, ha seguito in 36 anni di vita comunitaria, 285 giovani provenienti dalla strada, dal carcere, dalla tossicodipendenza, dall’alcolismo o dalla prostituzione,  sa quanto l’accompagnamento richieda un coinvolgimento coraggioso, fatto di giusta prossimità e giuste distanziazioni dove l’assenza di giudizio sull’altro corre parallela alla capacità di giudizio autocritico perché la fragilità di entrambi sia rispettata e diventi comunione.

Un secondo stato d’animo è la rassegnazione: è il dead man walking.

Poiché la fragilità non è teorica, ma è vissuto quotidiano, si associa a sforzi per il superamento dei limiti che tuttavia vengono percepiti come invalicabili: tutte le nostre azioni, ma anche i pensieri e le emozioni, avvengono necessariamente all’interno di tempo e spazio finiti e da ciò ne siamo condizionati. Ma anche rassicurati.

 

Non avere spazio e tempo sarebbe come trovarsi in una zattera in mare aperto dove non vediamo alcun punto di riferimento, ma solo acqua a 360°. L’uomo ha bisogno di riferimenti per orientarsi , di unità di misura per confrontarsi, tanto che l’infinito non è nemmeno concepibile per astrazione. L’infinito è l’immagine speculare del vuoto, quello che i latini chiamavano horror vacuie che costituisce una delle paure esistenziali dell’uomo cui far fronte per non soccombere all’angoscia.

L’inconscio dell’uomo tende a sfuggire al finito col rincorrersi di fantasmagorie e suggestioni, allucinazioni e deliri, sogni e paranoie, pulsioni ed impulsi, invenzioni e negazioni.

L’inconscio dell’uomo tende a sfuggire al finito col rincorrersi di fantasmagorie e suggestioni, allucinazioni e deliri, sogni e paranoie, pulsioni ed impulsi, invenzioni e negazioni.

Chi incautamente vi si addentra, corre il rischio della vertigine dell’abisso. San bene di cosa sto parlando psicoterapeuti e psicoanalisti, ma anche chi va in analisi! Per dare un’immagine ricorro alle matrioske. Con fatica vieni a capo su come risolvere un nodo, un trauma, un fastidioso pensiero ricorrente, un lutto: finalmente apri la matrioska e …dentro te ne trovi un’altra; ancora fatica : apri la seconda e …Dentro te ne trovi un’altra e così via, fino a quando? Quante sono le matrioske che ognuno porta nel proprio inconscio!

Forse Dio quando fece la solenne promessa ad Abramo: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle, tale sarà la tua discendenza!” (Gn 15,5) aveva smascherato i suoi desideri più segreti e profondi, nascosti nell’inconscio, carichi di delirio di onnipotenza pensandosi con una posterità che di fatto non c’era, ma che sarebbe stata l’unica risorsa per superare la propria fragilità di straniero tra un popolo  ostile; l’intimo conflitto era lancinante perché cozzava con l’impossibile di natura: sterilità e vecchiaia.  Solo Colui a cui tutto è possibile, potè frenare il vortice che muoveva gli abissi dell’inconscio e –chiedendo ad Abramo una confidenza assolutamente originale- richiamò a fertilità visceri consunti dagli anni in un orgasmo vitale inedito quanto insperato:”conta la sabbia che è sul lido del mare, così la tua discendenza”(Gn 22,17).

La rassegnazione è una posizione rinunciataria, di resa! Non c’è voglia di indagare sulla nostra fragilità per conoscerne il limite e se disponiamo di forze e capacità per affrontarla.

Il terzo stato d’animo è l’accettazione.

La fragilità non va coltivata, ma accettata. La fragilità è fatica nella misura in cui è dolore inascoltato
, dolore incustodito; ma se ascolto il mio dolore e lo custodisco con dignità e realismo, allora la fragilità diventa produttrice di virtù: la temperanza, la sobrietà,la coscienza del proprio limite, l’umiltà.  Virtù è proprio il sapersi destreggiare nella fragilità: la virtù, sì, va coltivata!

Dicevo prima che la fragilità dell’uomo sta nei suoi piedi, nel suo camminare. Mi spiego.

L’uomo è una massa enorme di cellule con loro caratteristiche e deputazioni interconnesse, ma tale massa è in continuo cambiamento, in continua evoluzione  a tal punto che il DNA che “scrive” l’essere e la sua identità, non solo cromosomico-materiale ma anche intellettivo-culturale e spirituale,  non è ad inchiostro indelebile, immodificabiluce-e-colorele, bensì è in permanente “ri-scittura” dove solo alcune basi –forse- sono fisse e rimangono tali per l’intera vita della persona.

Oggi scopriamo la dinamica cangiante dell’identità nel processo del cambiamento del corpo con l’avanzare dell’età, dei sentimenti e delle emozioni, dei valori, dell’idealità, dell’etica, della spiritualità nel continuo adeguamento o adattamento dell’io alle sollecitazioni  (imposizioni?)

dell’ambiente: dalle agenzie educative nell’infanzia e adolescenza, agli adeguamenti adulti per affermarsi, per interesse o comodità,  ai persuasori occulti ben noti a chi gestisce advertising campaign o promozioni di mercato i quali simulano che sia il cliente a scegliere liberamente, mentre essi proditoriamente occultamente instillano un fasullo bisogno di possedere quel determinato bene.

La fragilità è dunque il nostro badge che ogni giorno –volensnolens – passiamo a timbrare il mattino con l’ultimo sbadiglio prima di sfilarci dalle coperte il quale-nel mentre ci dà il riconoscimento, la protezione o il senso di appartenenza-  contemporaneamente ce li spezza perché io non son più quello di ieri (e allo specchio non posso accorgermene!),  oggi non ho più la salute o la prestanza di ieri,   oggi non sono più cercato ed apprezzato come ieri, anzi, oggi sono un peso di cui gli altri vorrebbero liberarsi ed io stesso vorrei liberare gli altri.  Lo specchio che rimanda la mia vera immagine non è quello del mattino mentre mi rado o mi pettino, ma è quello che mi dà costante consapevolezza delle mie fragilità perché mi conosca e ri-conosca nel “vedermi fare” e prenda giusta cura di me. Sì, perché la fragilità va vissuta con cura.

piedistatuatolingTorniamo all’affermazione che la fragilità dell’uomo sta nei suoi piedi.

Mentre scrivo queste poche riflessioni, la terra trema sotto i miei piedi e almeno da tre mesi; ma l’alea incombe “e se venisse una scossa maggiore?”.

Da 36 anni vivo nelle Marche in quell’area montana dei Sibillini terremotata nel 1972, nel 1997 e in questi 3 ultimi mesi. Dopo il terremoto del ’97 le scosse (sciame sismico) furono circa 2000 e proseguirono per un anno e mezzo. Quanto a quelle recenti sono già più di 20.000 e non sappiamo quando finiranno e se finiranno.

Nel 1976 ci fu il terremoto in Friuli e con un gruppo di amici ci occupammo a Gemona del F. per circa 3 mesi di desensibilizzare alla paura i ragazzi delle elementari e medie. La domanda che più sovente ci veniva posta era:” ma siamo sicuri che il terremoto non tornerà più?”.   Vedevamo in faccia la loro e la nostra fragilità:  in loro perché la paura –per quanto ammansita- conservava il suo subdolo artiglio,  in noi perché non potevamo dare una rassicurazione predittiva apodittica per dovere di verità. E per fortuna: il 26 settembre infatti ci fu un’ulteriore forte scossa, tanto che una nostra animatrice per un soffio non rimase sotto un cornicione crollato! “Sentiremo ancora la terra tremare sotto i nostri piedi da sembrare ubriachi?”.

Una scossa, pochi lunghi secondi per toccare fin nel profondo l’impotenza, l’inermità, per sentirmi ridotto alla resa in un presente fatto solo di incertezza e provvisorietà.

Il terremoto è parte della natura come gli oceani, i tsunami o le onde anomale;  come i fiumi e le alluvioni;  come i venti o i tornadi, i vari Nargis o El Nino che percuotono senza pietà le ricche ville di Miami o le povere bidonville di Haiti.  E noi siamo natura, terra come quella che i nostri piedi calpestano tutti i giorni perché non possiamo staccarci da essa e,  come essa percepisce e subisce tutti i nostri cambiamenti (anche vessatori: inquinamenti, prove atomiche sotterranee, estrazioni di gas e petrolio senza limiti, etc.),   altrettanto noi percepiamo e subiamo –proprio dai piedi- tutti i suoi mutamenti.

Ma proprio i piedi –spettacolare e instabile cerniera, anello di congiunzione-  potranno essere il mezzo di riconciliazione:  rendendo forte –accettandola e avendone cura- la nostra fragilità di partenza; costruire sulla sconfitta e sempre rialzarci tessendo giusta prossimità, creativa solidarietà, eque collaborazioni, rispettosa presenza, sapiente collaborazione, sodale fraternità tra noi uomini  e tra noi e la “nostra sora e madre terra” dove camminiamo.

E la fede?

Anche la fede è parte della nostra fragilità. Non alludo al dubbio: è necessario perché sussista la fede. Alludo invece al fatto che la fede è un affidarsi, è un consegnarsi ad una Presenza che immetterebbe una novità radicale nella nostra vita (v. Abramo), nella nostra storia, perché entrerebbe in gioco una realtà più grande di noi. Consegnarsi a quella Presenza, ci chiede di osare, ma non di tentare; di bussare, ma non di pretendere; di tendere, ma mai raggiungere; di desiderare, ma solo intuendo che il mio desiderio è desiderato dal desiderio dell’Altro.

Ecco, ancora una volta, a scontrarci col “limite”, col “confine”, col rischio tra coraggio e temerarietà, tra ebbrezza e sobrietà, tra Icaro e Dedalo,  tra Zeus e Prometeo.

In fondo, è proprio in questo iato dove è difficile trovare il giusto mezzo, il confine, il limite, in cui l’uomo si percepisce sempre e solo con piedi di argilla.

Concludo queste riflessioni citando una frase dell’avvenente Lou Salomè nell’accomiatarsi dal Dott. Breuer: ”Spero Dottore, che verrà il momento in cui non ci sarà più uomo o donna che debba subire la tirannide delle fragilità altrui” (“Le lacrime di Nietzsche” di I.D.Yalom – VI -2015- pag. 25); per parte mia, auspico invece, che la “tirannide delle fragilità” non sia più vissuta come tirannia reciproca, ma come umile senso comune di appartenenza che spalanchi le porte dei cuori  e delle menti ad una sentita e vissuta solidale fraternità.

Ganzetti Raffaella

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